(probabilmente della fine del 1834)
«Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9).
L’accondiscendenza della grazia di Dio verso le creature condusse il Figlio a rivelare il Padre dall’esterno e porta lo Spirito a rivelarlo in forma di comunicazione interiore. Come potremmo paragonare queste due differenti opere della misericordia divina, quando entrambe superano la nostra comprensione? Altro non possiamo fare che adorare in silenzio l’Amore infinito, che da ogni lato ci abbraccia. Il Figlio di Dio è chiamato Verbo o Parola in quanto, tramite tutta la creazione, proclama la gloria divina, ovunque chiaramente impressa. Egli ci ha dato modo di leggerla nelle sue opere di bontà, santità e sapienza. Egli è la vivente ed eterna legge della verità e della perfezione, quell’immagine degli inattingibili attributi divini che gli uomini mai hanno colto se non di sfuggita dalla superficie delle cose, assieme al senso della sua sovranità, ma senza poter dire se si trattasse della fondamentale norma di un essere in sé esistente, o di una luminosa emanazione del divino volere. Fin dall’inizio, amorevolmente inviato dal Padre a riflettere la sua gloria su tutte le cose, tale egli è stato: distinto da lui, ma nello stesso tempo uno con lui; e con pietà infinitamente più profonda egli a tempo debito ci ha visitato, quando per la nostra redenzione si è umiliato fino a prendere su di sé quella natura decaduta che egli aveva originariamente creato a sua immagine.
La condiscendenza dello Spirito di santità è incomprensibile quanto quella del Figlio. Egli è da sempre la segreta presenza di Dio nella creazione, la sorgente della vita nel caos, il principio della forma e dell’ordine di ciò che era informe e deserto, e la voce della verità nei cuori di tutti gli esseri razionali, per accordarli con le esterne intimazioni della legge di Dio. Egli è chiamato Spirito “datore di vita”, quasi l’anima dell’universale natura, forza dell’uomo e degli animali, guida della fede, accusatore del peccato, luce interiore di patriarchi e profeti, grazia che dimora nelle anime cristiane e Signore e Guida della Chiesa. Lodiamo dunque sempre il Padre onnipotente, prima sorgente di ogni perfezione; lodiamolo nel e con il Figlio e lo Spirito suoi eguali; per la loro generosa opera ci è stato dato di vedere di quale grande amore il Padre ci abbia amato.
Un proposito adatto per la solennità odierna sarà quello di proporre per quanto è possibile con lo stesso linguaggio della Scrittura una descrizione del misericordioso ruolo dello Spirito Santo Dio verso i cristiani; confido di poterlo fare con la sobrietà e riverenza che il soggetto richiede.
Lo Spirito Santo fin dall’inizio perorava la causa dell’uomo. Leggiamo nel Genesi che, quando il male cominciò a prevalere per tutta la terra, prima del diluvio, Dio disse: «Il mio Spirito è stanco di redarguire l’uomo»; [1] sottintendendo che, fino ad allora, aveva contestato le sue corruzioni. Ancora, quando Dio gli presentò un particolare popolo, lo Spirito Santo si compiacque di essere presente in esso in modo speciale. Neemia dice: «Hai concesso loro il tuo Spirito buono per istruirli», e Isaia: «essi si ribellarono e contristarono il suo santo Spirito». Ancora, egli si manifestò come la sorgente di vari doni, intellettuali e straordinari, nei profeti e in altri. Similmente, quando fu costruito il Tabernacolo, il Signore riempì Bezaleel «dello Spirito di Dio, perché avesse saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli» in metalli, pietra e legno. In un’altra occasione, quando Mosè era oberato di lavoro, l’Onnipotente dispose di «prendere dallo Spirito» che era su di lui e di infonderlo nei settanta anziani di Israele, perché potessero spartire con lui la sua fatica. «E avvenne che, quando lo Spirito si fu posato su di essi, quelli profetizzarono” [2] Questi testi sono sufficienti per ricordarvene molti altri, nei quali si parla dei doni dello Spirito Santo nell’antica Alleanza. Si trattò di grandi doni; ma, per quanto grandi, erano un nulla al confronto con la grazia ben maggiore di cui siamo onorati noi cristiani; noi abbiamo il gran privilegio di ricevere nei nostri cuori, non semplicemente i doni dello Spirito, ma la sua stessa presenza, Egli stesso, in una reale e non semplicemente simboleggiata presenza.
Quando nostro Signore intraprese il suo ministero, si comportò come se fosse un semplice uomo, bisognoso della grazia, e ricevette per nostro interesse la consacrazione dello Spirito. Egli divenne il Cristo, l’Unto, in modo che lo Spirito potesse essere visto scendere da Dio, e passare da lui a noi. Di conseguenza, il dono del cielo non è semplicemente chiamato Spirito Santo, o Spirito di Dio, ma lo Spirito di Cristo, perché possiamo chiaramente comprendere che egli viene a noi da Cristo e in sua vece. In questo senso S. Paolo dice: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio»; e nostro Signore alitò sugli Apostoli dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo»; e altrove dice loro: «quando me ne sarò andato, ve lo manderò».[3] Conformemente, questo «Spirito promesso» è chiamato «caparra della nostra eredità», «sigillo e caparra»[4] dell’invisibile Signore, in quanto pegno presente di lui che è assente – anzi, più che pegno, perché la caparra non è un semplice oggetto che alla fine ci verrà tolto, come avviene per il pegno, ma un anticipo di ciò che ci verrà dato pienamente.
Questo dev’essere chiaramente compreso; perché, stando così le cose, sembrerebbe conseguirne che il Consolatore, venuto al posto di Cristo, dovesse aver garantito di venire nello stesso senso in cui era venuto Cristo. Intendo dire: egli è venuto non meramente al modo dei doni, o delle influenze, o delle operazioni, come egli era venuto presso i profeti, perché allora l’allontanarsi di Cristo sarebbe stata una perdita, non un guadagno, e la presenza dello Spirito sarebbe meramente un pegno e non una caparra; ma egli viene a noi come Cristo era venuto, con una sua visita reale e personale. Non dico che avremmo potuto arguire questo così chiaramente già dai testi sopra citati; ma dato che ciò è effettivamente rivelato in altri passi della Scrittura, ci rendiamo conto che può essere legittimamente dedotto da questi. Comprendiamo che il Salvatore, una volta entrato in questo mondo, non ha mai accettato di allontanarsene lasciando le cose com’erano prima della sua venuta; egli è ancora con noi, ma non semplicemente nei suoi doni, bensì nello scambio di lui con il suo Spirito, e questo, sia nella Chiesa che nelle anime dei singoli cristiani.
Ad esempio, S. Paolo dice: «Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi». Ancora: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?»; «Noi siamo il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e camminerò con loro». Lo stesso Apostolo distingue chiaramente fra l’inabitazione dello Spirito e le sue effettive operazioni dentro di noi, quando dice: «l’amore di Dio è riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»; e ancora: «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio».[5]
Osserviamo qui, prima di passare oltre, quale indiretta attestazione ci è offerta in questi testi della divinità dello Spirito Santo. Chi può essere personalmente presente nello stesso istante in ogni cristiano, se non Dio stesso? Chi altro potrebbe, non semplicemente governare in modo invisibile nel mezzo della Chiesa – come Michele arcangelo che veglia su Israele, o come l’altro angelo chiamato “il Principe della Persia” – ma realmente prendere dimora nella sua vera identità in molti cuori separati, così da verificare le parole di nostro Signore: «è bene per voi che io me ne vada»?[6] La presenza corporea di Cristo, limitata nello spazio, viene sostituita dalla multiforme inabitazione spirituale del Consolatore entro di noi! Questa considerazione suggerisce sia la dignità del nostro Santificatore, che l’infinita preziosità del suo ruolo verso di noi.
Procediamo. Lo Spirito Santo, dicevo, abita nel corpo e nell’anima come in un tempio. Gli spiriti maligni hanno la capacità di possedere i peccatori, ma altra e ben più perfetta cosa è l’inabitazione dello Spirito onnisciente e onnipresente. Egli scruta ogni nostro pensiero e penetra ogni movente del nostro animo. Ci pervade (se così si può dire) come la luce si soffonde in un edificio, o un profumo impregna le pieghe di un abito da corte; la Scrittura ci dice che noi siamo in lui ed egli in noi. È chiaro che tale inabitazione porta il cristiano in uno stato del tutto nuovo e meraviglioso, ben al di sopra del semplice possesso di carismi, lo eleva in modo inimmaginabile nella scala degli esseri, e gli dona un posto e un ruolo che prima non aveva. Nel forte linguaggio di S. Pietro, egli diviene «partecipe della natura divina», e riceve «il potere», come dice S. Giovanni, «di diventare figlio di Dio». Con le parole di S. Paolo, «è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». Il suo rango, il suo parentado, il suo ruolo sono nuovi. Egli è «di Dio», e non appartiene a se stesso, è «vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona».[7]
Questo meraviglioso cambiamento dall’oscurità alla luce con l’ingresso dello Spirito nell’anima viene chiamato rigenerazione, o nuova nascita; si tratta di un privilegio che, prima della venuta di Cristo, neanche i profeti e i giusti possedevano, ma che è ora comunicato liberamente a tutti tramite il sacramento del battesimo. Per natura siamo figli dell’ira; il cuore è venduto al peccato, posseduto da spiriti cattivi; come suo eterno destino eredita la morte. Ma con la venuta dello Spirito Santo, tutta la colpa e il luridume sono bruciati come dal fuoco; il demonio è scacciato; il peccato, originale e attuale, perdonato; e tutto l’uomo è consacrato a Dio. Questa è la ragione per cui viene chiamato «la caparra» del Salvatore che è morto per noi e un giorno ci donerà la pienezza della sua presenza in cielo. Ci viene anche detto: da lui «foste segnati per il giorno della redenzione»;[8] perché, come il vasaio modella la creta, così egli imprime la divina immagine su di noi, membri della famiglia di Dio. La sua opera ben merita di essere chiamata rigenerazione, perché, anche se l’originaria natura dell’anima non viene distrutta, pure le passate trasgressioni sono perdonate una volta per tutte, e la scaturigine del male viene bloccata e gradualmente risanata per la diffusa salubrità e purezza che la sua presenza induce. Invece delle sue acque amare, una sorgente di benessere e vigore si apre nell’uomo; non semplicemente un rivo di quella fonte «limpida come cristallo» che sta di fronte al trono di Dio; ma, come dice nostro Signore, «una sorgente in lui», nel cuore dell’uomo, «che zampilla per la vita eterna». Per questo egli altrove descrive la dinamica della grazia come un fluire dal cuore, non come un ricevere: «fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno». E S. Giovanni aggiunge: «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui».[9]
Tale è l’inabitazione dello Spirito Santo in noi, in forza della quale la preziosa purificazione del sangue di Cristo viene applicata a noi in tutti i suoi molteplici benefici. Questa è la grande dottrina che noi teniamo come materia di fede e senza una diretta verifica di esperienza. Ma sarà necessario parlare brevemente anche del modo in cui il dono della grazia si manifesta nell’anima rigenerata; un tema questo che non intraprendo volentieri e che nessun cristiano è probabilmente in grado di considerare senza un certo sforzo, avvertendo il rischio di mettere in pericolo o la riverenza nei confronti di Dio, o la propria umiltà; ma gli errori del nostro tempo e la sicumera dei suoi avvocati ci obbligano a trattarlo, perché la verità non debba soffrire a causa del nostro silenzio.
1. Il dono celeste dello Spirito fissa gli occhi della nostra mente sul divino autore della nostra salvezza. Per natura siamo ciechi e carnali: ma lo Spirito Santo dal quale siamo rigenerati ci rivela il Dio misericordioso e ci ingiunge di riconoscerlo e adorarlo con cuore sincero come nostro Padre. Egli imprime in noi l’immagine del nostro Padre celeste, che perdemmo quando Adamo peccò, e ci dispone a cercare la sua presenza per l’istinto stesso della nostra nuova natura. Egli ci restituisce una porzione di quella libertà di volere e di operare, di quella onestà e innocenza, nella quale Adamo fu creato. Ci unisce a tutte le creature sante, come prima che fossimo compromessi col male; rimedia per noi quell’interrotto legame che procede dall’alto e congiunge in beata famiglia tutto ciò che è ovunque santo ed eterno, e lo separa dal mondo ribelle destinato alla scomparsa. Le nostre anime, come figlie di Dio e in unità con lui, continuamente si elevano a lui come in un grido. Di questa speciale caratteristica delle anime rigenerate parla S. Paolo: «avete ricevuto lo Spirito dell’adozione a figli, per mezzo del quale gridiamo, “Abbà, Padre!”».[10] Non siamo lasciati a emettere queste grida a lui in qualche modo vago e incerto di nostra scelta; ma colui che inviò lo Spirito a dimorare abitualmente in noi, ci ha dato anche delle espressioni per santificare i singoli atti della nostra mente. Cristo ci ha lasciato la sua sacra preghiera, perché fosse un possedimento caratteristico del suo popolo e la voce dello Spirito. Se la esaminiamo, vi troveremo la sostanza di quella dottrina alla quale S. Paolo ha dato un nome nel passo appena citato. La iniziamo avvalendoci del nostro privilegio di chiamare espressa^ mente Dio «Padre nostro». Conformemente a questo inizio, procediamo in quell’atteggiamento di attesa, fiducia, adorazione, rassegnazione che dei figli dovrebbero avere; guardiamo a lui, piuttosto che pensare a noi stessi; con zelo per il suo onore piuttosto che con timore per la nostra incolumità; con fiducia nel suo costante aiuto, privi di timori per il futuro. Il suo nome, il suo regno, la sua volontà, sono per il cristiano i grandi oggetti da contemplare e a cui finalizzarsi, per essere fermo e sereno e «perfetto in lui», come si addice a chi ha ricevuto in sé la grazia della presenza del suo Spirito. E quando egli si mette a pensare a se stesso, prega di essere reso capace di avere verso gli altri quello spirito di perdono e di amorevolezza che Dio ha mostrata verso di lui. Così si dona con multiforme generosità, badando innanzitutto ad assicurarsi il dono dal cielo, senza però tenerlo per sé una volta ottenuto, ma diffondendo «fiumi di acqua viva» sull’intero genere umano; pensando solo minimamente a se stesso, il cristiano non mira a scoraggiare e a distruggere nulla che non sia quel germe della tentazione e del male che è la ribellione contro Dio. La preghiera termina infine, come aveva iniziato, con la contemplazione del regno di Dio, del suo potere, e della sua gloria eterna. Questo è il vero «Abbà, Padre» che lo Spirito dei figli adottivi pronuncia entro il cuore del cristiano: voce infallibile di colui che «intercede per i santi secondo i pensieri di Dio». E se a volte, forse tra prove e afflizioni, egli sperimenta speciali visite della grazia e consolazioni dello Spirito; se avverte «gemiti inenarrabili», un desiderio ardente della vita futura, o fugaci bagliori dell’eterna divina elezione, con conseguenti profonde emozioni di meraviglia e gratitudine, egli pensa con troppa riverenza del “segreto del Signore”, per tradire tale confidenza, e, con il vantarsene di fronte al mondo, forse esagerarlo in qualcosa di maggiore di quanto fosse inteso; no, egli rimarrà silenzioso, pondererà l’eccelso incoraggiamento rivolto alla sua anima, certo significativo, ma quanto e fino a che punto, egli non lo sa.
2. L’inabitazione dello Spirito Santo solleva l’anima non solo al pensiero di Dio, ma anche di Cristo. Dice S. Giovanni: «la nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo»; e lo stesso nostro Signore: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».[11] Ora, senza parlare di altre e più sublimi realizzazioni di questi testi, una certamente consiste in quell’esercizio della fede e dell’amore nel pensiero del Padre e del Figlio, che il Vangelo e lo Spirito che lo rivela offrono ai cristiani. Lo Spirito venne specialmente per «glorificare» Cristo; e promette di essere una luce che brilla nel cuore della Chiesa e dei singoli cristiani, riflettente il Salvatore del mondo in tutte le sue perfezioni, ministeri e opere. Egli venne con il proposito di rivelare ciò che era ancora tenuto nascosto, mentre Cristo era in terra; e proclama pubblicamente ciò che era stato ascoltato in privato, rivelando nella gloria della sua trasfigurazione colui che non aveva «apparenza né bellezza», ma era soltanto un «uomo dei dolori che ben conosce il patire».[12] Dapprima egli inspirò i santi evangelisti a scrivere la vita di Cristo, e li diresse nella scelta di quali delle sue parole e opere immortalare e quali lasciare ai ricordi; quindi ne ispirò, diciamo, i commenti e ne svolse le implicanze nelle lettere degli Apostoli. La nascita, la vita, la morte e la risurrezione di Cristo hanno formato il testo che lo Spirito ha illuminato. Lo Spirito ha trasformato la storia in dottrina, dicendoci chiaramente, sia tramite S. Giovanni sia tramite S. Paolo, che il concepimento e la nascita di Cristo sono stati l’effettiva incarnazione del Verbo eterno – la sua vita, «Dio manifestato nella carne» – la sua morte e risurrezione l’espiazione del peccato e la giustificazione di tutti i credenti. Ma questo non fu tutto: egli continuò il sacro commento con il formare la Chiesa, col sovrintendere e dirigere i suoi strumenti umani, col portare le parole e le opere di nostro Signore e l’illustrazione che ne avevano fatto gli Apostoli a sfociare in atti di obbedienza e in ordinamenti permanenti, tramite l’opera di santi e martiri. Infine lo Spirito completa quest’opera di grazia presentando tale sistema di verità, in tutte le sue articolazioni e svolgimenti, al cuore di ciascun cristiano ove egli dimora. In tal modo egli permette l’edificazione integrale dell’uomo in fede e santità: «distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo».[13] In forza della sua grazia prodigiosa tutto tende alla perfezione. Ogni facoltà della mente, ogni progetto, ogni impresa, ogni idea, è santificata dalla costante visione di Cristo, come Signore, Salvatore e Giudice. Ogni sentimento solenne, riverente, riconoscente e devoto, tutto ciò che è nobile, tutto ciò che è eccellente nell’anima rigenerata, tutto ciò che è abnegazione nel comportamento, e zelo nell’azione, è suscitato e offerto tramite lo Spirito come un vivente sacrificio al Figlio di Dio. E benché il cristiano sia istruito a non pensare di sé oltre misura e a non vantarsi, egli sa anche che la coscienza del peccato che rimane in lui e che infetta le sue migliori prestazioni, non deve separarlo da Dio, ma condurlo a colui che può salvarlo. Egli esclama con Pietro: «Da chi andremo?»; e, senza osare di decidere o di essere impaziente quanto a sapere fino a che punto egli possa considerare come suo proprio ogni privilegio evangelico, egli li ammira e li scruta nel loro insieme come possedimenti della Chiesa, intona il suo inno trionfale in onore di Cristo, e ascolta pensoso la sua voce nella Scrittura ispirata – la voce della Sposa che invoca e riceve la benedizione dell’Amato.
3. S. Giovanni aggiunge, dopo aver parlato della «nostra comunione con il Padre e il Figlio suo»: «Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia piena». Che cos’è la pienezza della gioia se non la pace? La gioia è tumultuosa quando non è piena; ma la pace è il privilegio di coloro che sono «pieni della conoscenza della gloria del Signore, come le acque ricoprono il mare»; «Signore, tu doni la pace a chi è costante e pone in te la sua fiducia».[14] È la pace che zampilla dalla fiducia e dall’innocenza, e che si effonde tutt’intorno come amore. Qual è l’effetto anche solo del senso fisico di benessere e prestanza, se non un generale compiacimento per tutto ciò che accade? “Cuor felice, sempre in festa”; e questa è la beatitudine propria dell’anima che gode della fede e del timor di Dio. Chi è ansioso pensa a se stesso, sospetta pericoli, parla in fretta, e non ha tempo per gli interessi degli altri; chi vive in pace è a suo agio, ovunque la sua -olle lo porti. Questa è l’opera interiore dello Spirito Santo, in giudei o greci, schiavi o liberi. Egli stesso, nella sua misteriosa natura, è forse proprio l’eterno Amore della reciproca insidenza del Padre e del Figlio, come antichi autori hanno creduto; e ciò che egli è in cielo, lo è non meno sulla terra. Egli vive nel cuore del cristiano come l’inesauribile sorgente dell’amore di carità che costituisce la dolcezza stessa dell’acqua viva. Dov’egli è, “vi è la libertà” dalla tirannia del peccato, dal timore che l’uomo naturale avverte di un Creatore offeso e non riconciliato. Dubbio, tetraggine, impazienza sono stati scacciati; al loro posto la gioia nel Vangelo, la speranza del cielo, l’armonia di un cuore puro, il trionfo del dominio di sé, sobrietà di pensieri, contentezza di spirito. Come potrebbe non seguirne una carità verso tutti, che è semplicemente l’affettuosità dell’innocenza e della pace? Lo Spirito di Dio crea in noi la semplicità e il calore che il cuore dei bimbi possiede, e persino perfezioni come quelle delle schiere angeliche, in virtù di quell’unità di insieme che caratterizza i differenti livelli della sua opera; cosa sono, infatti, la pacifica fiducia, l’amore ardente, la costante purezza, se non lo spirito sia dei bimbi che degli adoranti Serafini?
Pensieri come questi trovano il giusto posto in noi, se ci rendono prudenti e guardinghi nella gioia. Non possono certamente agire in modo diverso; perché l’animo di un cristiano, come ho cercato di descriverlo, non è tanto quello che abbiamo, quanto quello che dovremmo avere. Dopo avervi riflettuto, fissare lo sguardo sulle moltitudini che sono state battezzate nel nome di Cristo è un affare troppo serio, e non occorre che ci obblighiamo a farlo. Non siamo obbligati se non a pregare, protestare e lottare contro quanto di male vediamo; quanto, invece, a quel solenne e più alto considerare come delle persone, scelte individualmente e collettivamente quali templi della verità e santità, debbano diventare ciò che sembrano essere, e quale sia di conseguenza il loro stato dagli occhi di Dio, è una questione che è una grande benedizione avere il permesso di accantonare, non essendo di nostra competenza. Nostro compito è soltanto guardare a noi stessi e accertarci che, stante il dono ricevuto, non abbiamo a «rattristare lo Spirito di Dio, col quale siamo stati segnati per il giorno della redenzione»; ricordando che «se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui».[15] Questa riflessione e il ricordo delle nostre molte cadute ci tratterranno sempre, Dio lo voglia, dal giudicare gli altri, o ci all’inorgoglirci dei nostri privilegi. Accontentiamoci di considerare come siamo decaduti dallo splendore di grazia del battesimo. Se fossimo ora ciò che quel santo sacramento ci ha resi, potremmo sempre “proseguire con gioia”; ma avendo macchiato i nostri abiti nuziali, in un modo o nell’altro, tanto o poco (Dio lo sa! e in qualche misura anche la nostra coscienza), lo Spirito dell’adozione si è purtroppo in parte sottratto a noi; e il senso di colpa, il rimorso, il rammarico, la penitenza devono prendere il suo posto. Dobbiamo rinnovare la nostra confessione, e tornare a chiedere giorno dopo giorno l’assoluzione, prima di osare rivolgersi a Dio come nostro Padre, o offrirgli salmi e preghiere di intercessione. E qualunque sofferenza e afflizione ci viene incontro nella vita, dobbiamo accoglierla come un’indulgente penitenza imposta da un Padre a dei figli sbandati, accettarla con mitezza e riconoscenza, in quanto intesa a ricordarci quell’infinita-mente più grave e pesante punizione che era il nostro debito di natura, e che Cristo ha portato per noi sulla croce.
PPS vol. II, 19; ed. italiana: John Henry Newman, Sermoni sulla Chiesa PDUL 2004, pp. 77-85.
[1] Gen 6,3
[2] Ne 9,20; Is 63,10; Es 31,3. 4; Nm 11,17. 25.
[3] Gal 4,6; Gv 20,22; 16,7.
[4] Ef 1,14; 2 Cor 1,22; 5, 5.
[5] Rm 8,9.11; 1 Cor 6,19; 2 Cor 6,16; Rm 5,5; 8,16.
[6] Gv 16,7.
[7] 2 Pt 1,4; Gv 1,12; 2 Cor 5,17; 1 Gv 4,4; 1 Cor 6,19-20; 2 Tm 2,21.
[8] Ef 4,30.
[9] Ap 4, 6; Gv 4, 14; 7, 38-39. In realtà, secondo Ap 4, 6 davanti al trono di Dio vi era, non una fonte o sorgente, ma «come un mare trasparente simile a cristallo»; l’immagine del fiume che sgorga dal trono di Dio e dell’Agnello si trova in Ap 22,1. Qui Newman sembra confondere i due testi e per far giustamente notare l’interiore innesto della sorgente della grazia, finisce per contrapporre due immagini che, in base a quanto sta affermando sull’inabitazione, dovrebbero risultare convergenti [N.D.T.]
[10] Rm 8,15.
[11] 1 Gv 1,3; Gv 14,23.
[12] Is 53,3
[13] 2 Cor 10,5.
[14] Is 26,3.
[15] Ef 4,30, 1 Cor 1,17.