Dottore della coscienza
P. Hermann Geissler FSO
Un anno fa, il 19 settembre 2010 Papa Benedetto XVI ha proclamato beato il famoso teologo inglese John Henry Newman. Durante l’incontro natalizio con la Curia Romana, svoltosi il 20 dicembre 2010, il Santo Padre parlava ancora una volta di Newman, richiamando tra l’altro l’attualità della sua concezione di coscienza: “Nel pensiero moderno, la parola ‘coscienza’ significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. … La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui ‘coscienza’ significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza – un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui.”
Newman fece l’esperienza che coscienza e verità si appartengono, si sostengono e si illuminano a vicenda, che l’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza alla verità. In questa seconda parte tentiamo di presentare alcuni aspetti fondamentali del rapporto tra coscienza e verità nella dottrina di Newman. Ricorrendo spesso alla propria esperienza, il pensiero di Newman sulla coscienza è moderno e personalistico, caratterizzato da un’evidente impronta agostiniana. Per entrare nella questione, occorre all’inizio descrivere brevemente il significato della coscienza secondo Newman.
Significato della coscienza
Con il tempo il termine coscienza ha assunto molteplici significati, che in parte sono anche contraddittori tra di loro. Newman descrive il motivo centrale per questi contrasti con le seguenti parole: “Quanto alla coscienza, esistono due modalità per l’uomo nel seguirla. Nella prima la coscienza forma soltanto una specie di intuito verso ciò che è opportuno, una tendenza che ci raccomanda l’una o l’altra cosa. Nella seconda è l’eco della voce di Dio. Ora tutto dipende da questa differenza. La prima via non è quella della fede, la seconda lo è”[1].
Nella celebre Lettera al Duca di Norfolk (1874) Newman approfondisce questa tematica. Scrive al riguardo: “Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, non intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto nel pensiero come nell’azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio… La coscienza ha diritti perché ha doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà di abbracciare o meno una religione… La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto di agire a proprio piacimento”[2].
Questa descrizione vale sostanzialmente anche per il nostro tempo: la coscienza è oggi spesso confusa con l’opinione personale, il sentimento soggettivo, l’arbitrio. Per molti non significa più la responsabilità della creatura nei confronti dell’Altro, ma la totale indipendenza, l’assoluta autonomia, la pura soggettività. Il santuario della coscienza è stato “desacralizzato”. La responsabilità nei confronti dell’Altro è stata bandita dalla coscienza. Le conseguenze di quest’interpretazione secolarizzata della coscienza ci stanno dolorosamente davanti agli occhi. Emancipandosi dalla responsabilità nei confronti di Dio, infatti, l’uomo tende a segregarsi anche dal prossimo. Vive nel mondo del proprio Io, spesso senza prendersi cura dell’altro, senza interessarsi dell’altro, senza sentirsi corresponsabile per l’altro. Il puro individualismo, la ricerca illimitata del piacere e del potere e il gradimento senza limiti oscurano il mondo e fanno sempre più difficile la convivenza pacifica tra gli uomini.
Newman invece difende decisamente il significato trascendente della coscienza. Per lui la coscienza non è una realtà puramente autonoma, ma essenzialmente teocentrica – un “santuario” nel quale l’Altro si rivolge personalmente ad ogni singola anima. Con i grandi dottori della Chiesa egli conferma che il Creatore ha impresso nella creatura ragionevole la sua legge. “Questa legge, in quanto è percepita dalla mente dei singoli uomini, si chiama ‘coscienza’ e benché possa subire rifrazioni diverse passando attraverso l’intelligenza di ogni essere umano, non ne viene per questo intaccata al punto da perdere il suo carattere di legge divina, ma mantiene ancora, come tale, il diritto ad essere obbedita”[3]. Dobbiamo obbedire alla coscienza perché si presenta a noi come l’eco della voce di Dio. Nel contempo abbiamo il dovere di formarla perché possa far risplendere la legge di Dio nel modo più chiaro possibile e senza infrangere la sua luce.
Newman stesso descrive il significato e la dignità della coscienza con parole meravigliose: “La norma e la misura del dovere non è l’utilità, né la convenienza, né la felicità del maggior numero di persone, né la ragion di Stato, né l’opportunità, né l’ordine o il pulchrum. La coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura, sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi; e se mai potesse venir meno nella Chiesa l’eterno sacerdozio, nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il dominio”[4].
Nella coscienza l’uomo non sente solo la voce del proprio Io. Newman paragona la coscienza con un messaggero di Dio che ci parla come dietro un velo. Osa persino chiamare la coscienza l’originario vicario di Cristo e di ascriverle i tre “uffici” messianici del profeta, del re e del sacerdote. La coscienza è profeta in quanto ci predice se un’azione è buona o no; è re perché ci comanda con autorevolezza: fa questo, evita quest’altro; è sacerdote in quanto ci “benedice” dopo aver compiuto un’azione buona – ciò significa non solo l’esperienza gratificante della buona coscienza, ma anche la benedizione che il bene comporta sempre per l’uomo e per il mondo – oppure ci “condanna” dopo un’azione cattiva – ciò è espressione della coscienza cattiva e delle conseguenze negative del peccato sull’uomo e sulla società. Per noi è importante che, secondo Newman, la coscienza è essenzialmente collegata con la responsabilità nei confronti dell’Altro, in quanto costituisce un principio iscritto nella natura di ogni uomo che richiede obbedienza, deve essere formato e rinvia al di sopra di noi stessi – verso Dio, per il bene proprio e altrui.
Coscienza e Dio
Newman fu convinto che nella coscienza possiamo percepire l’eco della voce di Dio. Ancora di più: la coscienza è per lui una via verso la conoscenza del Dio vivo.
Nel suo capolavoro Grammatica dell’assenso (1870) cerca di elaborare una “prova” di Dio a partire dall’esperienza della coscienza. Analizzando l’esperienza della coscienza, distingue tra il “senso morale” (moral sense)” e il “senso del dovere” (sense of duty)”[5]. Con il senso morale intende il giudizio della ragione sulla bontà o malvagità di una determinata azione. Il senso del dovere invece è il comando autorevole di compiere l’azione riconosciuta come buona e di evitare quella riconosciuta come cattiva. Nelle sue riflessioni Newman parte soprattutto da questo secondo aspetto dell’esperienza della coscienza.
Essendo “imperativa e cogente, come nessun altro imperativo in tutta la nostra esperienza”, la coscienza “esercita un profondo influsso sulle nostre affezioni ed emozioni”[6]. In modo semplificato potremmo riassumere il pensiero di Newman, da non confondere con un puro psicologismo, nel modo seguente: qualora seguiamo il comando della coscienza, siamo riempiti di felicità, di gioia e di pace. Se non obbediamo a questa voce interiore, sentiamo vergogna, spavento e paura. Newman interpreta quest’esperienza così: “Se, com’è il caso, ci sentiamo responsabili, ci vergogniamo, siamo spaventati, per aver trasgredito la voce della coscienza, ciò suppone che esiste Qualcuno verso il quale siamo responsabili, davanti al quale proviamo vergogna, le cui pretese temiamo. Se, nel fare il male, proviamo lo stesso dolente e straziato dispiacere che ci sopraffa quando offendiamo nostra madre; se, nel fare il bene, godiamo della stessa solare serenità dello spirito, della stessa gioia lenitiva e soddisfacente che deriva da una lode ricevuta dal padre, certamente abbiamo dentro di noi l’immagine di una persona alla quale guardano il nostro amore e la nostra venerazione, nel cui sorriso troviamo la nostra felicità, per la quale sentiamo tenerezza, alla quale rivolgiamo le nostre invocazioni, dalla cui ira siamo preoccupati e logorati… così i fenomeni della coscienza, intesa come imperativo, servono ad imprimere nell’immaginazione l’immagine di un Reggitore Supremo, un Giudice, santo, giusto, potente, onniveggente, punitivo”[7].
Newman sa che l’esperienza della coscienza non conduce l’uomo automaticamente a Dio. Solo se la voce della coscienza è interpretata non in modo puramente immanentistico, ma viene vista nel suo carattere trascendente, essa può diventare una via verso Dio. In questo secondo caso comunque può imprimere nell’uomo l’immagine di un Dio personale, un Legislatore e un Giudice supremo. In questo senso la coscienza non è soltanto il principio dell’etica, ma anche della religione.
Confrontandosi con le tradizionali “prove di Dio”, Newman afferma di preferire la via a Dio a partire dalla coscienza. Taluni vedono in questa posizione un limite nel pensiero di Newman, rimproverandogli di aver esagerato la dimensione della interiorità dell’uomo. In realtà Newman non nega le tradizionali “prove di Dio”, ma è del parere che queste conducono l’uomo soltanto ad un’immagine astratta di Dio: ad un primo Movente, un Ordinatore di tutte le cose, un Creatore e Guida del mondo. La sua via della coscienza invece conduce l’uomo a un Dio che sta in una relazione personale con ciascuno, che gli parla, gli mostra i suoi difetti, lo chiama alla conversione, lo guida alla conoscenza della verità, lo sprona a fare il bene, si presenta come suo supremo Signore e Giudice.
Coscienza e fede
Newman procede ancora oltre giungendo alla convinzione che l’obbedienza alla coscienza prepara il cuore dell’uomo per la fede nella rivelazione. Nella conferenza sulle disposizioni per la fede (1856) presenta alcuni argomenti per motivare tale conclusione.
Parte ancora dall’esperienza della coscienza come una voce che impartisce all’uomo comandi autorevoli i quali esigono obbedienza. Ora l’obbedienza costituisce proprio quell’atteggiamento interiore che prepara gli uomini ad abbracciare la verità della rivelazione. “… cominciando con l’obbedire, giungeranno alla percezione intima, alla fede in un solo Dio. La sua voce dentro di loro dà testimonianza di lui, ed essi credono alla testimonianza che egli dà di se stesso… Questo è dunque il primo passo che dobbiamo fare in quelle buone disposizioni che ci portano a credere al Vangelo”[8]. L’umiltà e l’obbedienza sono atteggiamenti fondamentali dell’uomo religioso. Chi pratica l’obbedienza nella docilità alla voce della coscienza, non avrà difficoltà ad accogliere nella fede la voce della rivelazione. Per quale ragione Lidia, commerciante di porpora, poteva così velocemente aprire il suo cuore per aderire alle parole di san Paolo, divenendo la prima europea cristiana (cf. At 16, 14)? Per Newman la risposta è chiara: perché era una credente in Dio e aveva già imparato a obbedire alla voce di Dio nella propria coscienza. La consonanza tra questa voce interiore e l’annuncio dell’Apostolo fece sì che ella potesse subito adire, nell’obbedienza, alla fede cristiana.
In una seconda argomentazione Newman afferma che la voce della coscienza, pur essendo autorevole e imperiosa, parla non raramente un linguaggio silenzioso e impreciso. Spesso pare difficile per l’uomo distinguere tra gli appelli della coscienza e i desideri della passione, dell’orgoglio e dell’amor proprio. “Così il dono della coscienza fa nascere il desiderio di ciò che essa non fornisce pienamente. Suscita in loro l’idea di una guida autorevole, di una legge divina; e il desiderio di possederla nella sua pienezza e non soltanto in frammenti o in suggestioni indirette. Crea in loro una sete, un’ansia di conoscere quel Signore invisibile, quel Sovrano, quel Giudice che ora parla loro solo segretamente, sussurra al loro cuore, dice loro qualcosa, ma certamente non tutto quello che essi desiderano e di cui hanno bisogno… è questa la condizione di ogni uomo religioso che non abbia la conoscenza di Cristo: essere in ricerca”[9]. Talvolta i comandi della coscienza sono imprecisi e pertanto l’uomo è in ricerca. Suscitano in lui il desidero di un orientamento più chiaro e più sicuro che proviene dall’Alto e non sia esposto all’influsso del peccato e dell’errore.
Ancora una terza argomentazione conduce Newman alla stessa conclusione: “quanto più una persona cerca di obbedire alla sua coscienza, tanto più si rammarica di obbedirle in modo così imperfetto. Il suo senso del dovere diventerà più acuto, la percezione della trasgressione più delicata, ed egli comprenderà sempre più quante sono le cose di cui deve essere perdonato. Poi, mentre cresce nella conoscenza di sé, capisce sempre più chiaramente che la voce della coscienza non ha nulla di gentile né di misericordioso nel suo tono. Esso è piuttosto severo, e anche duro. Non parla di perdono, ma di punizione. Gli insinua il pensiero del giudizio futuro, ma non gli dice come può evitarlo”[10]. La coscienza rappresenta un maestro severo. Ci mette davanti agli occhi i nostri peccati, ma non può liberaci da questo peso. Così fa nascere nel nostro cuore il desiderio di una pace vera e di una riconciliazione autentica con Dio. Questo desiderio giunge al suo definitivo compimento solo con la venuta del Salvatore che offrendo se stesso per noi ci ha riconciliati con Dio e si è fatto la nostra pace.
Naturalmente Newman conosce la differenza essenziale tra la coscienza e la fede. Nel contempo ritiene fermamente che l’obbedienza nei confronti della luce donataci costituisca la via per giungere ad una luce più chiara. “Seguite dunque il vostro senso per il diritto e mediante quest’obbedienza al vostro Creatore, secondo il comando della coscienza naturale, giungerete alla convinzione della verità e potenza di quel Redentore che vi ha portato un messaggio dal Cielo”[11]. Attingendo alla propria esperienza, Newman può testimoniare che “l’obbedienza alla coscienza porta all’obbedienza al Vangelo, la qual cosa, invece di essere una cosa assolutamente diversa, non è che il completamento e il perfezionamento di quella religione che viene insegnata dalla coscienza naturale”[12]. L’obbedienza alla coscienza prepara il cuore umano alla fede nella rivelazione di Dio, che da parte sua purifica e illumina la coscienza. Nella Sacra Scrittura, così scrisse il giovane Newman, l’uomo “troverà largamente ratificate, completate e illustrate tutte quelle vaghe congetture e imperfette conoscenze della Verità che il cuore gli ha insegnate”[13].
Accogliendo docilmente la rivelazione, la coscienza umana diventa una coscienza cristiana, cioè una coscienza informata e purificata dalla fede. La verità rivelata, infatti, illumina la coscienza in modo tale da poter più facilmente pronunciare giudizi sicuri nelle circostanze concrete della vita secondo le esigenze del Vangelo. Per questa ragione la coscienza cristiana si distingue qualitativamente dalla coscienza di una persona che ignori la rivelazione, sebbene rimanga la stessa secondo la sua disposizione di fondo.
Coscienza e Chiesa
Finalmente con Newman possiamo osare un ultimo passo fondato nella stessa logica del suo cammino e del suo pensiero. L’obbedienza alla coscienza, che può condurre l’uomo alla fede nel Salvatore, suscita nel suo cuore anche un desiderio che lo spinge verso la pienezza della verità nell’unica Chiesa di Cristo.
Gli atteggiamenti morali fondamentali, che scaturiscono dall’obbedienza alla coscienza, formano secondo Newman “l’organum investigandi datoci per guadagnare la verità religiosa: questo condurrebbe la mente, con una successione infallibile, dal rifiuto dell’ateismo al teismo e dal teismo al cristianesimo, e dal cristianesimo alla religione evangelica e dal questa al cattolicesimo”[14]. Nell’Apologia Newman afferma in modo audace: “… arrivai alla conclusione che, in una vera filosofia, non vi era via di mezzo tra l’ateismo e il cattolicesimo, e che uno spirito pienamente coerente, nelle circostanze in cui si trova quaggiù, deve abbracciare o l’uno o l’altro. E sono tuttora convinto di questo: io sono cattolico in virtù della mia fede in Dio; e se mi si chiede perché credo in Dio, rispondo: perché credo in me stesso. Trovo, infatti, impossibile credere nella mia propria esistenza (e di questo fatto sono perfettamente sicuro) senza credere anche nell’esistenza di Colui che vive nella mia coscienza come un Essere Personale, che tutto vede, tutto giudica”[15].
Le affermazioni più rilevanti sul tema coscienza e Chiesa si trovano nella già citata Lettera al Duca di Norfolk. In questo saggio Newman respinge l’accusa che dopo la proclamazione del dogma sull’infallibilità del Papa i cattolici non potrebbero più servire lo Stato come buoni cittadini, in quanto sarebbero obbligati a consegnare la propria coscienza al Papa. Per rispondere a simili idee diffuse allora in Inghilterra, Newman chiarisce in modo magistrale il rapporto tra l’autorità della coscienza e l’autorità del Papa.
L’autorità del Papa è fondata nella rivelazione, espressione della bontà divina nei confronti dell’uomo. Dio ha consegnato la sua rivelazione alla Chiesa e in forza del suo Spirito si fa garante che essa venga preservata, interpretata e trasmessa in modo infallibile nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Se una persona accoglie nella fede questa missione della Chiesa, capisce nella sua propria coscienza che deve obbedire alla Chiesa e al Papa. Newman, di conseguenza, può scrivere: “se il vicario di Cristo parlasse contro la coscienza, nell’autentico significato del termine, commetterebbe un suicidio; toglierebbe la base su cui poggiano i suoi piedi. Sua autentica missione è proclamare la legge morale; proteggere e rafforzare quella ‘Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo”. Sulla legge e sulla santità della coscienza sono fondati tanto la sua autorità in teoria, quanto il suo potere in pratica… La sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza. La realtà della sua missione è la risposta al lamento di quanti sentono l’insufficienza del lume naturale; e l’insufficienza di questo lume è la giustificazione della sua missione”[16]. Non obbediamo al Papa perché qualcuno ci costringe a farlo, ma perché siamo personalmente convinti nella fede che il Signore – per mezzo di lui e dei vescovi in comunione con lui – guida la Chiesa preservandola nella verità.
La coscienza formata dalla fede conduce l’uomo all’obbedienza libera e matura nei confronti del Papa. D’altra parte, la Chiesa, il Papa e i vescovi illuminano la coscienza bisognosa di un sostegno chiaro e preciso. Newman afferma: “… il sentimento del giusto e dell’ingiusto, che nella religione è il primo elemento, è così delicato; così irregolare; così facile da confondersi, da essere oscurato, pervertito; così sottile nei suoi metodi di ragionamento; così malleabile dall’educazione; così influenzato dall’orgoglio e dalle passioni; così instabile nel suo corso che, nella lotta per l’esistenza, tra i molteplici esercizi e trionfi della mente umana, questo sentimento è al tempo stesso il più grande e il più oscuro dei maestri; e la Chiesa, il Papa, la gerarchia costituiscono, nella Provvidenza divina, la risposta a un urgente bisogno”[17].
Al riguardo, la Chiesa è un grande aiuto non solo per la coscienza del singolo credente. Offre anche un servizio insostituibile per la società come avvocata dei diritti e delle libertà inalienabili degli uomini. Tali diritti e libertà, radicati nella dignità della persona umana, formano la base degli Stati costituzionali moderni, ma come tali non possono essere sottoposti alle regole democratiche maggioritarie. Difendendo la dignità della persona umana, creata da Dio e redenta da Cristo, e ribadendo i suoi fondamentali diritti e doveri, la Chiesa svolge quindi una missione di straordinaria importanza per le società moderne.
Secondo Newman non ci può essere uno scontro diretto tra la coscienza e la dottrina della Chiesa. La coscienza, infatti, non ha competenza nelle questioni della dottrina rivelata, custodita in modo infallibile dalla Chiesa. Newman sa che “nelle cose dottrinali ‘la maestà della coscienza’ non è il tribunale adeguato per ciò che vorrei tenere come affermazione valida sulla materia”[18]. Se una persona accoglie una dottrina rivelata e insegnata dalla Chiesa non è prioritariamente una questione di coscienza ma di fede. Un credente quindi che ritiene di dover respingere una dottrina di fede, non può richiamarsi alla sua coscienza. O meglio, la sua coscienza non è più illuminata dalla fede. La coscienza del fedele deve sempre essere una coscienza ecclesiale formata dalla fede.
Ma l’autorità della Chiesa e del Papa ha dei limiti. Non ha niente in comune con l’arbitrio oppure con i modelli di dominio di questo mondo, essendo connessa inseparabilmente con il senso di fede infallibile di tutto il popolo di Dio e con la missione specifica dei teologi. L’autorità della Chiesa riguarda solo l’ambito della verità rivelata e necessaria per la salvezza. Se il Papa prende decisioni nel campo della disciplina o dell’amministrazione, non si tratta ovviamente di interventi infallibili. Ciò vale ancora di più se il Papa offre commenti su questioni d’attualità.
Di regola l’uomo credente accoglierà con disponibilità e diligenza anche le decisioni e le affermazioni di tale natura per non mettere in pericolo l’unità della Chiesa. In casi singoli di questo genere può comunque giungere in coscienza ad una posizione diversa da quella del Papa. Ma anche qui Newman offre dei criteri chiari e precisi per il credente: “Prima facie è suo stretto dovere, anche per un senso di lealtà, credere che il Papa abbia ragione e agire perciò in conformità. Deve quindi vincere quella meschina, ingenerosa, egoistica e volgare propensione della propria natura, la quale, non appena sente parlare di comando, si pone in contrasto col superiore che l’ha impartito; si chiede se quest’ultimo non sia andato oltre i propri diritti, compiacendosi di affrontare il tutto con scetticismo nei giudizi e nell’azione. Non deve nutrire nessun caparbio proposito di esercitare il diritto di pensare, dire e fare quello che gli pare e piace, senza preoccuparsi minimamente del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, dell’obbligo stesso dell’obbedienza, qualora possibile, e di quell’amore che ci spinge a parlare come parla il proprio superiore e a stargli sempre a fianco in ogni caso. Se questa fondamentale regola fosse osservata, i conflitti tra l’autorità del Pontefice e l’autorità della coscienza sarebbero estremamente rari. D’altra parte essendo, nei casi straordinari, la coscienza di ciascuno libero di agire a proprio talento, abbiamo la garanzia e la sicurezza… che nessun Papa potrà mai creare per i suoi scopi personali… una falsa coscienza”[19].
Newman conclude le sue affermazioni sulla coscienza nella Lettera al Duca di Norfolk con il seguente famoso brindisi: “… se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa”[20]. Questa battuta, che esprime anche il fine humour di Newman, significa innanzitutto che la nostra obbedienza al Papa non è un’obbedienza cieca, ma sostenuta dalla coscienza formata dalla razionalità della fede. Chi nella fede ha accolto la missione del Papa, lo ascolterà per convinzione personale di coscienza. In tal senso viene davvero prima la coscienza, quella illuminata dalla fede, e poi il Papa.
Newman mantenne decisamente la correlazione tra coscienza e Chiesa. Non si può richiamarsi a lui o al suo summenzionato brindisi per contrapporre l’autorità della coscienza e quella del Papa. Ambedue le autorità, quella soggettiva e quella oggettiva, rimangono dipendenti l’una dall’altra: il Papa dalla coscienza e la coscienza dal Papa.
Conclusione
Oggi la parola coscienza è un termine equivoco e spesso malinteso. Con il suo cammino di vita e la sua solida dottrina il beato John Henry Newman può aiutarci a riscoprire il vero significato della coscienza come eco della voce di Dio, rigettando nel contempo interpretazioni insufficienti ed errate. Newman ha sempre affermato pienamente la dignità della coscienza soggettiva, senza deviare mai dalla verità oggettiva. Egli non direbbe: coscienza sì – Dio o fede o Chiesa no, ma piuttosto: coscienza sì – e proprio per questo Dio e fede e Chiesa sì! La coscienza è l’avvocata della verità nel nostro cuore, è “l’originario vicario di Cristo”.
[1] John Henry Newman, Sermon Notes, Herefordshire – Notre Dame 2000, p. 327. La traduzione è nostra.
[2] John Henry Newman, Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e libertà, a cura di Valentino Gambi, Milano 1999, pp. 221-222.
[3] Ibid., pp. 217.
[4] Ibid., pp. 219-220.
[5] John Henry Newman, Saggio a Sostegno di una Grammatica dell’Assenso, in: Scritti Filosofici, a cura di Michele Marchetto, Milano 2005, p. 1027.
[6] Ibid., p. 1029.
[7] Ibid., pp. 1033-1035.
[8] John Henry Newman, Gesù. Pagine scelte, a cura di Giovanni Velocci, Milano 1992, p. 231.
[9] Ibid., p. 231-232.
[10] Ibid., p. 232.
[11] John Henry Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. VIII, Westminster 1968, p. 120. La traduzione è nostra.
[12] Ibid., p. 202. La traduzione è nostra.
[13] John Henry Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. I, Westminster 1966, p. 217. La traduzione è nostra.
[14] Saggio a Sostegno di una Grammatica dell’Assenso, p. 1691.
[15] John Henry Newman, Apologia pro vita sua, a cura di Francesco Morrone, Milano 2001, p. 339.
[16]Lettera al Duca di Norfolk, pp. 225-226.
[17] Ibid., p. 226.
[18] The Letters and Diaries of John Henry Newman, vol. XXIX, Oxford 1976, p. 388. La traduzione è nostra.
[19] Lettera al Duca di Norfolk, pp.232-233.
[20] Ibid., pp. 236-237.