La stagione di penitenza che precede la Pasqua dura quaranta giorni in ricordo del digiuno di nostro Signore nel deserto. Perciò oggi, prima domenica di quaresima, leggiamo il Vangelo che ce ne fa il racconto; e nella colletta preghiamo colui che digiunò quaranta giorni e quaranta notti, di benedire la nostra astinenza per il bene delle nostre anime e dei nostri corpi.
Noi digiuniamo per far penitenza e per assoggettare la carne; nostro Signore non lo fece per questi motivi; il suo digiuno fu differente dal nostro sia quanto a intensità sia quanto allo scopo. Tuttavia egli è il nostro modello: e noi protraiamo il tempo del digiuno fino a quando, in numero di giorni, non abbiamo eguagliato il suo.
Ma c’è una ragione per agire così; noi non dobbiamo far nulla senza avere Gesù dinanzi agli occhi. E come solo da lui abbiamo la forza di compiere la più piccola cosa, così nessuna azione è buona se non è fatta per lui. Da Gesù viene la nostra ubbidienza, a Gesù deve tendere; egli dice: « Senza di me non potete far nulla» (Gv. 15, 5). Nessuna opera è buona senza grazia e senza amore.
S. Paolo si disfece di tutto « per trovarsi in lui, non con la giustizia che deriva dalla legge, ma con quella che si ottiene con la fede in Cristo » (Fil. 3, 9). Quindi le nostre azioni sono gradite quando son fatte, non in maniera legale, ma per mezzo della fede in Cristo.
Vane furono tutte le opere della legge perché non furono compiute con il potere dello Spirito; e si rivelarono puri tentativi della natura decaduta, incapace di raggiungere la sua meta. Solo gli uomini ciechi e carnali, o quelli che sono nell’estrema ignoranza, potrebbero trovare in esse qualche cosa in cui rallegrarsi. Che cosa furono tutte le giustizie della legge, le sue opere, anche le più straordinarie, le sue elemosine e i suoi digiuni, le mortificazioni dei corpi e le afflizioni delle anime; che cosa fu tutto questo se non polvere e scoria, un povero servizio terreno, una miserabile penitenza senza speranza, in quanto la grazia e l’amore di Cristo vi erano assenti? Gli Ebrei potevano umiliarsi, ma non potevano innalzarsi nello spirito, anzi cadevano sempre di più sotto il dominio della carne; potevano affliggere se stessi, ma ciò non giovava alla loro salvezza; potevano rattristarsi, ma non per gioirne per sempre; l’uomo esteriore poteva morire, ma l’uomo interiore non si rinnovava di giorno in giorno. Essi ebbero il peso e l’arsura del giorno, e il giogo della legge, e tutto questo non « procurò loro un immensurabile cumulo eterno di gloria » (2 Cor. 4, 17).
Ma Dio ha riservato per noi un destino migliore: egli ci ha redenti nel Cristo; e questo significa essere capaci di compiere ciò che i Giudei furono impotenti a realizzare; significa avere dentro di noi una virtù per cui possiamo fare tutte le cose; essere posseduti dalla sua presenza come nostra vita, nostra forza, nostro merito, nostra speranza, nostra corona; diventare, in una via meravigliosa, suoi membri, suoi strumenti, o forma visibile, o segno sacramentale dell’unico invisibile eterno Figlio di Dio, il quale rinnova misticamente in ognuno di noi tutti gli atti della sua vita terrena: la nascita, la consacrazione, il digiuno, le tentazioni, i conflitti, le vittorie, le sofferenze, l’agonia, la passione, la morte, la risurrezione e l’ascensione, essendo egli tutto in tutti; e noi, sebbene con una piccola forza, con poca eccellenza o merito, come l’acqua nel battesimo, o il pane e il vino nella santa comunione, siamo tuttavia forti nel Signore e nella potenza della sua grazia.
Questi sono i pensieri con cui abbiamo celebrato il Natale e l’Epifania, questi sono i pensieri che ci devono accompagnare nella quaresima. Sì, anche nei nostri esercizi di penitenza, dove meno avremmo sperato di trovare un modello in Cristo, egli ci ha preceduto per santificarli. Ha benedetto il digiuno come mezzo di grazia, perché lui ha digiunato; ed esso è gradito a Dio solo se viene fatto per amore. La penitenza è pura formalità o solo rimorso a meno che non venga fatta per amore. Se digiuniamo senza unirci di cuore a Cristo, imitandolo, e pregandolo che voglia far suo il nostro digiuno, che lo voglia associare al suo, cosicché noi possiamo essere in lu e lui in noi, ci comporteremo come Ebrei, e non come cristiani. Molto opportunamente quindi, nella celebrazione liturgica di questa prima domenica, c proponiamo il pensiero di Cristo, la cui grazia deve essere in noi, altrimenti nelle nostre penitenze battiamo l’aria e ci umiliamo invano.
Ora, in varie maniere, il suo esempio può essere preso a nostro conforto e incoraggiamento in questa stagione dell’anno.
E prima di tutto è bene insistere nel fatto che nostro Signore si ritirò dal mondo per inculcarci lo stesso dovere; egli lo fece specialmente prima di in cominciare la vita pubblica; ma non è il solo caso ricordato. Prima di scegliere gli apostoli infatti osservò la stessa preparazione: « In quei giorni Gesù si recò sul monte a pregare, e trascorse tutta la notte in orazione a Dio » (Lc. 6, 12).
La preghiera durante tutta la notte fu una penitenza dello stesso carattere del digiuno. In un’altra occasione, dopo aver licenziato la gente, « venne sul monte a pregare in disparte » (Mt. 14, 23); e anche allora vi trascorse gran parte della notte. Così in mezzo all’entusiasmo prodotto dai suoi miracoli, « la mattina, avanti giorno, si alzò, uscì e si recò in un luogo deserto, e là si mise a pregare ». Considerando che nostro Signore è il modello della natura umana in ogni sua perfezione, non si può certo dubitare che dobbiamo imitare tali esempi di devozione, se vogliamo essere perfetti.
Ma il nostro dovere vien confermato e posto oltre ogni dubbio dal fatto che troviamo esempi simili nella vita dei più eminenti suoi servi. S. Paolo nell’Epistola di questo giorno ricorda, tra le altre sofferenze, che lui e i fratelli furono « nei digiuni e nelle veglie », e in un altro capitolo afferma che fu « spesso nei digiuni ». S. Pietro si ritirò a Joppe, sulla riva del mare, nella casa di un certo Simone, e lì pregò e digiunò. Mosè ed Elia affrontarono un miracoloso digiuno, lungo come quello di nostro Signore. Mosè veramente in due tempi separati, come lui stesso ci rivela: « Mi prostrai per terra davanti al Signore come prima, per quaranta giorni e quaranta notti; non mangiai pane, non bevvi acqua » (Deut. 9, 18). Elia essendo stato nutrito da un angelo « camminò nella forza di quel cibo quaranta giorni e quaranta notti» (1 Re 19, 8). Così Daniele « si rivolse al Signore Iddio per pregarlo e supplicarlo col digiuno, cilizio, sacco e cenere »; e ancora in un altro tempo egli dice: « In quei giorni, io, Daniele, feci penitenza per tre settimane, non mangiai cibo di delizie,non mi entrò in bocca né carne né vino e non mi unsi affatto, finché non furono compiute tre settimane » (Dan. 9, 3; 10, 2-3).
Ed ora vorrei osservare che il digiuno di nostro Signore non fu soltanto un preludio alla tentazione: egli venne nel deserto per essere tentato dal diavolo; ma prima di essere tentato, digiunò. Si deve rilevare che ciò non fu solo una preparazione alla lotta; ne fu anche la causa. La solitudine e l’astinenza non solo lo armarono contro il tentatore, ma in certo senso ve lo esposero; Satana si servì del digiuno per lanciare il suo assalto contro Gesù.
Così anche i cristiani che si sforzano di imitarlo andranno incontro allo stesso destino; ed è bene che lo sappiano, altrimenti, quando praticheranno l’astinenza, saranno soggetti a delusioni e scoraggiamenti Si dice comunemente che il digiuno ha per scopo di rendere noi cristiani, migliori, più sobri, e di portarci più vicino a Cristo nella fede e nell’amore. Questo è vero se si considera la cosa nel suo insieme Certo al termine verrà tale effetto: ma non è affatto sicuro che seguirà subito, fin da principio. Al contrario queste mortificazioni hanno vari influssi nelle persone, e devono essere osservate non in forza dei benefici visibili, ma sulla fede nella parola di Dio.
Alcuni col digiuno diventano più forti e sono portati subito più vicino a Dio; altri invece lo trovano anche se in maniera leggera, come un’occasione per la tentazione. Così, alcune volte, per addurre una ragione contro la sua pratica, si obietta che esso rende irritabili e di cattivo umore; e in realtà ciò può accadere. Inoltre dal digiuno deriva di frequente una debolezza che priva l’uomo del controllo sugli atti del suo corpo e sui sentimenti del suo spirito. Egli allora può apparire di cattivo umore; e sembra che la sua lingua, le sue labbra, anzi il suo cervello non siano in suo potere; non usa le parole, l’accento, il tono che vorrebbe. Inoltre la debolezza del corpo lo priva dell’auto-controllo; e forse egli non può impedirsi di ridere o di sorridere, quando dovrebbe essere serio; ciò che è evidentemente la prova più affliggente e umiliante. O se gli si presentano pensieri cattivi, li respinge con difficoltà; e subisce un’impressione così forte alla quale non è capace di resistere.
Io non ho ricordato tutti gli effetti negativi che possono seguire anche da un moderato esercizio del grande dovere cristiano del digiuno; ma è innegabile che esso è un’occasione di tentazione, e lo dico affinché le persone non restino sorprese e si abbattano, se lo troveranno così. Il Signore misericordioso lo sa per esperienza; e il fatto che lui lo abbia sperimentato e lo conosca, come la Scrittura ci ricorda, è un pensiero pieno di conforto. Io non voglio dire che anche una minima imperfezione abbia macchiato la sua anima immacolata; ma è chiaro dalla storia sacra che nel suo caso il digiuno aprì la via alla tentazione.
Forse questa è la ragione più vera di tali esercizi: essi ci avvicinano, per una via meravigliosa e sconosciuta, al mondo futuro, e sono una introduzione a una specie di lotta straordinaria con le potenze del male.
Ci sono a proposito storie (non importa se siano vere o no; esse mostrano però che la voce dell’umanità le crede verosimili) di eremiti nel deserto che vengono assaliti da Satana nelle maniere più strane; essi tuttavia vi resistono, e lo respingono sull’esempio del Signore e con la forza della sua grazia. Ed io penso, se conosciamo bene la storia segreta delle anime, che in questi casi si possa trovare il fatto sorprendente di tentazioni offerte all’anima, mentre essa non ne viene contaminata, in quanto non vi acconsente neppure con atti fugaci della volontà, ma le respinge decisamente. Così i cristiani si rendono sempre più conformi a Cristo, il quale fu tentato senza però essere indotto al peccato. Quindi non si devono abbattere, anche se si trovano esposti a pensieri, dai quali rifuggono con aborrimento e terrore; anzi devono considerare tali tentazioni come un segno della benevolenza del Signore. E se è una prova per noi, creature e peccatori, subire pensieri alieni dal nostro cuore, quale deve essere stata la sofferenza del Verbo Eterno, Dio da Dio, Luce da Luce, Santo e Innocente, l’essere stato, in un certo senso, assoggettato a Satana?
E’ certamente un dolore per noi se ci vengono imputati dinanzi agli uomini motivi e sentimenti che non abbiamo mai avuto; è una prova subire la suggestione di idee dalle quali rifuggiamo con ripugnanza; è una sofferenza che Satana possa unire i suoi pensieri ai nostri; ma non c’è Uno che, prima di noi, soffrì maggiormente nella tentazione, e fu più glorioso nella sua vittoria? Egli fu tentato in tutto, come noi, senza però commettere peccato. E certamente la tentazione di Cristo ci ispira conforto e incoraggiamento.
Questa è forse una veduta più vera delle conseguenze del digiuno di quelle che vengono comunemente. presentate. Esso è, con la grazia di Dio, un beneficio spirituale per i nostri cuori, e li rende migliori, per mezzo di colui che opera tutto in tutti. Ma spesso succede diversamente; spesso accresce la suscettibilità e l’irritabilità del nostro spirito. In tutti i casi il digiuno deve essere considerato come un avvicinamento a Dio, ai poteri del cielo, e anche ai poteri dell’inferno. E sotto questo punto di vista c’è qualcosa di veramente terribile in esso. Per quanto noi sappiamo, la tentazione di Cristo non è che la più alta espressione di quello che, in grado minore, secondo la loro infermità e debolezza, avviene nei suoi servi che lo cercano.
E se è cosi, è stata una forte ragione per la Chiesa di associare la nostra stagione di umiliazione con il soggiorno di Cristo nel deserto, perché non fossimo lasciati coi nostri pensieri come se fossero delle bestie feroci. Uniti con Cristo, non ci abbattiamo quando sorge la tentazione; ma ci sentiamo ciò che siamo realmente: non schiavi di Satana e figli dell’ira, senza speranza, gementi sotto il nostro peso, e gridando « o uomo malvagio che io sono »; ma ci riconosciamo peccatori, e peccatori che affliggono se stessi e fanno penitenza; ma nello stesso tempo figli di Dio, la cui penitenza è fruttuosa: che quando si abbassano sono esaltati, e mentre si gettano ai piedi della croce, sono soldati di Cristo, con la spada in pugno, che combattono una generosa battaglia, sapendo d’avere in sé una forza, alla cui vista i diavoli tremano e fuggono.
Ma c’è un altro punto, che richiede una considerazione distinta, nella storia del digiuno e della tentazione di nostro Signore: la vittoria finale. Egli ebbe tre tentazioni, e tre volte vinse; alla fine disse: « Va via da me, Satana »; e allora il diavolo lo lasciò.
Un simile conflitto e una simile vittoria nel mondo invisibile sono ricordati in altri passi della Scrittura. Il più notevole è quello nel quale nostro Signore liberò l’indemoniato che gli apostoli non erano riusciti a guarire. Egli era appena disceso dal monte della Trasfigurazione dove, e questo sia tenuto presente, era salito per passare la notte in preghiera. Discese dopo una intensa comunione con il Padre, e vinse lo spirito impuro; e fu allora che disse: « Questa specie di diavoli non può essere scacciata se non con la preghiera e il digiuno » (Me. 9, 29); il che non è altro che una esplicita dichiarazione della forza che questi esercizi danno sul mondo invisibile; e non c’è nessun motivo per limitarla solo ai primi tempi della Chiesa.
Io penso che negli effetti prodotti anche ora (senza fare ricorso alla storia) da tali esercizi, c’è una prova abbastanza forte per affermare che essi sono mezzi con i quali Dio dona al cristiano un potere alto e reale su gli spiriti cattivi.
E poiché la preghiera non è solo un’arma, sempre necessaria e infallibile, nei conflitti con i poteri delle tenebre, ma importa anche una liberazione dal male, ne segue che tutti i testi biblici che parlano di uomini che si rivolgono a Dio e prevalgono su lui, con la preghiera e con il digiuno, dichiarano questo conflitto e promettono questa vittoria.
Così nella parabola, la vedova importuna, che rappresenta la Chiesa in preghiera, è zelante non solo con Dio, ma anche contro i suoi nemici: « Vendicami dei miei avversari », lei dice; e il nostro avversario è il diavolo « il quale si aggira, come leone ruggente, in cerca di chi divorare; resistetegli saldi nella fede »; aggiunge S. Pietro (1 Pt. 5, 8-9).
Si osservi che nella parabola è raccomandata specialmente la perseveranza nella preghiera. Ed è questa una lezione che ci viene insegnata anche dalla lunga durata del digiuno quaresimale: noi non otteniamo la realizzazione dei nostri desideri con un solo giorno di penitenza, né con una sola preghiera, anche fervente, ma con « l’insistenza ininterrotta nella preghiera ».
Ciò è significato anche nel racconto della lotta di Giacobbe. Egli vi fu impegnato tutta la notte; non sappiamo chi era colui con il quale si misurò in quello scontro solitario; ma quegli con il quale si batté, gli diede la forza di vincere, e alla fine gli lasciò un pegno, per mostrargli che aveva prevalso solo per condiscendenza di colui contro il quale aveva combattuto. Così rinvigorito, Giacobbe perseverò fino all’alba, e domandò la benedizione; e l’altro lo benedisse, dandogli un nome nuovo in memoria del suo successo: « Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai lottato con Dio e con gli uomini, ed hai vinto » (Gn. 32, 29).
Così Mosè passò uno dei suoi quaranta giorni nella confessione e nella intercessione per il popolo che aveva innalzato il vitello d’oro: « Io dunque mi prostrai a terra davanti al Signore per quaranta giorni e quaranta notti perché il Signore aveva detto di volervi distruggere. E pregai il Signore e dissi: o Signore Dio, non distruggere il tuo popolo, la tua eredità, che tu hai redento nella tua grandezza, che. hai tratto dall’Egitto con mano potente » (Deut. 9, 25-26).
Anche i due digiuni di Daniele finirono con una benedizione. Il primo ebbe carattere d’intercessione per il popolo, e a lui fu concessa la profezia delle settanta settimane. Ma anche il secondo fu ricompensato con rivelazioni profetiche; e quello che è degno di rilievo, sembra che esso abbia avuto un influsso ( se è permesso usare tale parola ) sul mondo invisibile dal momento in cui egli lo incominciò. « L’angelo mi disse: “Non temere, Daniele, perché fin dal primo giorno in cui ti applicasti per intendere, umiliandoti davanti a Dio, le tue parole furono esaudite, ed io sono venuto per le tue parole” » (Dan. 10, 12). L’angelo venne alla fine, ma era pronto a venire fin da principio. Ed egli continua a parlare: « Ma il Principe del regno di Persia mi si è opposto per ventun giorni ( esattamente il tempo nel quale Daniele era rimasto a pregare); però Michele uno dei primi principi è venuto ad aiutarmi, ed io l’ho lasciato là presso il principe del re di Persia » (Dan. 10, 13).
Un angelo venne a Daniele dopo il suo digiuno; così anche, dopo le tentazioni del Signore, gli angeli vennero e lo servirono; e noi possiamo credere ed essere confortati dal pensiero che anche oggi gli angeli sono mandati in maniera speciale a quelli che cercano Dio. Non solo Daniele, ma anche Elia fu confortato dall’angelo durante il suo digiuno; un angelo apparve a Cornelio mentre digiunava e pregava; e io penso che c’è abbastanza in quello che le persone religiose vedono intorno a loro che conferma questa speranza, raccolta dalla parola di Dio.
« Egli darà ordine ai suoi angeli di proteggerti in tutte le tue vie » (Sal. 91, 11). Il diavolo conosce questa promessa perché la usò nell’ora più forte della tentazione; sa bene qual è la nostra forza e la nostra debolezza. Ma noi non abbiamo nulla da temere se rimaniamo sotto l’ombra del trono dell’Altissimo. « Anche se mille cadranno al tuo fianco, e diecimila alla tua destra, a te non si avvicinerà » (Sal. 91, 7). Fin quando siamo fondati in Cristo, partecipiamo alla sua sicurezza; egli ha spezzato il potere di Satana; ha camminato « sull’aspide e sulla vipera, ha calpestato il leoncello e il dragone » (Sal. 91, 13); e d’ora innanzi gli spiriti cattivi, invece di aver potere su di noi, tremano e si spaventano alla vista di ogni vero cristiano. Essi sanno che ha in sé ciò che lo rende dominatore; che può, se vuole, beffarsi di loro e metterli in fuga. Essi lo sanno bene e lo tengono presente in tutti gli assalti; solo il peccato dona loro potere su di lui; e il loro grande scopo è di farlo peccare, di sorprenderlo nel peccato, sapendo che non hanno altra via di vincerlo. Essi tentano di spaventarlo con la prospettiva del pericolo, e così coglierlo di sorpresa; o si avvicinano con astuzia, di nascosto, per sedurlo e farlo cadere.
Perciò, miei fratelli, non siamo ignoranti dei loro disegni, ma conoscendoli bene, vegliamo, preghiamo, digiuniamo, restiamo sotto le ali dell’Altissimo, che è nostro scudo e nostra difesa. Preghiamolo che ci faccia conoscere la sua volontà, che ci insegni i nostri peccati, che tolga da noi tutto ciò che lo può offendere, e ci guidi nella via della salvezza. E durante questa sacra stagione, saliamo sul monte con Cristo, dentro il velo nascosti con lui; non fuori di lui o staccati da lui, nella cui presenza soltanto c’è la vita, ma con lui ed in lui: imparando la sua legge con Mosè, i suoi attributi con Elia, i suoi consigli con Daniele… imparando a pentirci, a confessarci, a emendarci; imparando il suo amore e il suo timore, dimenticando noi stessi, e crescendo in lui che è il nostro Capo…
John Henry Newman, Fasting a Source of Trial, Parochial and plain sermons, vol. VI,1, pp. 1-14.
Fu predicato il 4 marzo 1838