Newman e i concili
di KER Ian
Si è svolto il 22 e il 23 novembre presso la Pontificia Università Gregoriana un simposio internazionale sul tema “Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman”. Pubblichiamo una larga parte della relazione tenuta dall’autore della più importante biografia di Newman definita da Henry Chadwick “a very splendid book”.
Poiché il concilio Vaticano II fu incentrato completamente sulla Chiesa, il documento in cui esso esamina la natura stessa della Chiesa, Lumen gentium, deve sicuramente essere il più importante. È nella sua ecclesiologia che Newman anticipa il concilio, forse in modo più determinante. Com’è fin troppo noto, Newman fu un pioniere solitario del laicato nella Chiesa altamente clericale del XIX secolo e fu l’autore di ciò che si considera il testo classico sul laicato, ovvero l’articolo Sulla consultazione di fedeli in questioni di dottrina. Senza dubbio avrebbe accolto bene il capitolo della Costituzione sul laicato. L’altro capitolo che attrasse grande attenzione allora e dopo il concilio fu il capitolo sui vescovi. Newman avrebbe di certo considerato quel capitolo come un’aggiunta necessaria e una modifica della definizione dell’infallibilità del Papa formulata del Vaticano i, che aveva inteso elaborare un insegnamento più ampio sulla Chiesa, intenzione frustrata dalla sospensione indefinita del concilio. Tuttavia, esistono due capitoli, che sono stati entrambi ignorati in confronto a quelli sul laicato e sui vescovi, ma che costituiscono l’idea fondamentale del concilio sulla natura della Chiesa e che erano stati anticipati da Newman. Mi riferisco ai primi due capitoli “Il Mistero della Chiesa” e “Il Popolo di Dio”, che formulano in termini scritturali e patristici la definizione conciliare di ciò che Newman chiamava “l’idea della Chiesa”. Le conseguenze dell’aver trascurato questi due capitoli fondamentali e di aver sopravvalutato il significato dei capitoli sui vescovi e sul laicato sono state facilmente predette da Newman: precisamente, un’enfasi eccessivamente gallicana sulla cosiddetta “collegialità”, un’enfasi che ignora il fatto che la Chiesa è papale nonché episcopale e una sollecitudine per il laicato, che ha portato a ciò che io definisco “laicismo”, che spesso si è sostituito al vecchio clericalismo. Prima, durante e dopo il concilio Vaticano i, Newman ha adombrato ciò che può definire una mini-teologia dei concili della Chiesa, che ha molta importanza per la nostra epoca post-conciliare. Il primo punto da evidenziare è che Newman non nutriva dubbi sul fatto che i concili fossero “sempre stati momenti di grande prova”: la storia ha dimostrato che avevano “generalmente due caratteristiche – un gran quantità di violenza e di intrigo da parte di chi vi partecipava, e una grande resistenza alle loro definizioni da parte di porzioni di cristianesimo” (Sulla consultazione dei fedeli in questioni di dottrina). L’elemento più generale è che i concili hanno conseguenze inattese e più ampie di quelle che i testi conciliari sembrano presupporre. L’elemento più specifico è che un insegnamento conciliare non può essere considerato al di fuori del contesto o piuttosto, come in questo caso, senza un contesto. Newman sperava che, se il concilio sospeso fosse stato ripreso, “si sarebbe occupato di altri aspetti” che “avrebbe avuto l’effetto di qualificare (…) il dogma”. Ciò a cui Newman si riferisce qui è un insegnamento più generale sulla Chiesa che avrebbe fornito un contesto all’infallibilità del Papa. Tuttavia, il fatto che la Chiesa abbia dovuto aspettare un altro concilio affinché questo accadesse, non avrebbe sorpreso Newman: il suo studio sulla Chiesa primitiva mostrava in che modo essa “era passata alla verità perfetta per mezzo di varie dichiarazioni successive, anche opposte fra loro, perfezionandole, completandole, arricchendole”. La proclamazione dell’infallibilità del Papa “doveva essere completata” – “siamo pazienti, abbiamo fede e un nuovo Papa e un nuovo Concilio potranno assettare la nave”. Quella profezia si avverò naturalmente con Giovanni XXiii e il concilio Vaticano ii, ma anche a quest’ultimo si applica il criterio generale secondo cui i concili devono “essere completati”. Quando Newman parla di completamento, non intende accrescimento di ciò che è già stato insegnato, che nel caso del Vaticano i avrebbe significato un rafforzamento della proclamazione, ma intende “dichiarazioni in direzioni opposte”. Nel caso del Vaticano II, Newman non suggerirebbe un Vaticano III, come molti speravano, almeno fino a poco tempo fa, che sarebbe “andato oltre” il Vaticano II, ma piuttosto “dichiarazioni in direzioni opposte”. I dogmi della Chiesa primitiva, osservava Newman, non furono eliminati tutti in un’unica soluzione, ma un po’ alla volta – un concilio faceva una cosa, un altro una seconda cosa – e così tutto il dogma veniva formulato. Sebbene, per la maggior parte, il concilio Vaticano ii non fu un concilio dogmatico, i suoi insegnamenti causarono e causano ancora oggi dissensi considerevoli. Dopo il Vaticano I, Newman aveva osservato che la Chiesa aveva avuto 300 anni per digerire e metabolizzare il concilio di Trento, ma “ora noi siamo figli nuovi, la nascita del concilio Vaticano (…) non sappiamo esattamente cosa abbiamo”. La nota dolente era che, come sottolineò Newman, “i concili in genere agivano come una leva, spostando e mettendo in disordine parti del sistema teologico esistente”. Gli insegnamenti conciliari richiedono un’interpretazione: difficilmente parlano per se stessi, sebbene dopo il concilio Vaticano II si parlò molto di “realizzare” i suoi insegnamenti come se fossero del tutto intelligibili. Non solo i teologi devono “stabilire la forza” di un insegnamento, proprio come “avvocati che spiegano atti del Parlamento” ma, la “voce diffusa” di tutta Chiesa deve farsi udire e le attitudini e le idee cattoliche devono “assimilare e armonizzare” un insegnamento conciliare. Visto che uno degli “svantaggi di un Concilio Generale è che esso getta unità singole della Chiesa nella confusione e le pone in disaccordo”, Newman sarebbe rimasto difficilmente sorpreso sia dallo scisma dei vecchi cattolici di Döllinger sia dall’estremismo degli ultramontani nell’esagerare la portata della proclamazione dell’infallibilità del Papa. Né sarebbe rimasto sorpreso dalla situazione opposta, ma analoga, venutasi a creare dopo il concilio Vaticano II, quando sia Lefebvre e i suoi seguaci sia i liberali si unirono nell’esagerare la portata e la valenza rivoluzionarie del concilio. Tuttavia, sebbene Newman deplorasse il modo in cui Döllinger faceva appello alla storia contro il concilio come i protestanti facevano appello alle Scritture contro la Chiesa, non poteva negare di essere rimasto colpito dagli ultramontani estremi come il cardinale Manning, che aveva utilizzato una “retorica” straordinaria nella sua lettera pastorale dell’ottobre 1870, suscitando l’impressione che l’infallibilità papale fosse illimitata. Nello stesso modo, senza dubbio, avrebbe simpatizzato con i Lefebvriani al punto da deplorare l’estremismo aggressivo di Hans Küng e lo spirito del “partito del concilio Vaticano II”. Newman evidenzia un elemento incisivo all’inizio del suo Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana. Nella prima sezione del primo capitolo, dove parla del processo di sviluppo delle idee, evidenzia che un’idea viva non si può isolare “dall’interazione con il mondo” e sostiene che questa interazione è veramente necessaria “se una grande idea deve essere compresa nel modo giusto e ancor di più se deve essere presentata in pienezza”. Nella terminologia di Newman, il cristianesimo è proprio un'”idea” del genere. Ora esiste un’obiezione ovvia a questa argomentazione: ovvero che più una cosa si allontana dalla propria origine o fonte, più perde il suo carattere originale. Pur ammettendo che, di certo, c’è sempre il rischio che un’idea venga corrotta da elementi esterni, Newman insiste sul fatto che, sebbene “si dica a volte che la corrente è più chiara vicino alla sorgente”, ciò non vale per il tipo di idea di cui si parla. Qualunque uso positivo si possa fare di questa immagine, esso non vale per la storia di una filosofia o di un credo, che, al contrario, è più equo, più puro e forte quando il suo letto è divenuto più profondo, ampio e pieno. Sorge necessariamente da uno stato di cose e da un terreno adatto. Il suo elemento vitale deve staccarsi da ciò che è estraneo e temporaneo. In altre parole, la filosofia o il credo divengono più autentici cambiando e sviluppandosi nel corso del tempo. È ironico che le parole famose che appaiono alla fine di questa sezione siano regolarmente citate fuori contesto a significare l’opposto di ciò che intendeva Newman: “In un mondo più alto è diverso, ma qui sotto vivere è cambiare, ed essere perfetti significa aver cambiato spesso”. Il punto non è che il cattolicesimo deve cambiare o svilupparsi per essere diverso, ma per essere lo stesso. Ora, se Newman è corretto in ciò che dice sull'”idea”, ossia che la filosofia o il credo divengono più equi, puri e più forti man mano che si sviluppano, allora gli insegnamenti del concilio Vaticano II diverranno più equi, puri e forti con il trascorrere del tempo. Chi ha partecipato al concilio pensava senza dubbio di aver compreso perfettamente il significato dei suoi insegnamenti. Sia Küng sia Lefebvre non avevano dubbi su come il concilio andava interpretato, ovvero come rottura con la tradizione, e, paradossalmente, come Döllinger e Manning, erano in totale accordo sul suo significato. In retrospettiva, possiamo vedere molto meglio la portata molto limitata della proclamazione dell’infallibilità del Papa e apprezzare l’accuratezza dell’interpretazione di Newman. Tuttavia, per Döllinger e per Manning la proclamazione significava molto di più di quanto la teologia cattolica fino ad allora aveva pensato significasse, un’idea che ha ricevuto l’avallo formale della Chiesa nel concilio Vaticano ii. A proposito di quest’ultimo concilio, si addiceva a Küng e a Lefebvre esagerare la sua natura rivoluzionaria, sebbene la cosiddetta rivoluzione suscitò in loro sentimenti molto diversi. Se è corretto definire Newman “il padre del concilio Vaticano II”, allora non è irragionevole applicare la mini-teologia di sviluppo, che adombrò al tempo del concilio Vaticano I, e la sua teologia dello sviluppo, alla questione della ricezione e dell’interpretazione del Vaticano II nonché ai probabili sviluppi futuri. Se possiamo considerare Newman come nostra guida, allora, possiamo legittimamente utilizzare quel passaggio tratto dal Saggio sullo sviluppo per asserire che chi partecipò al concilio Vaticano II o ne fece esperienza probabilmente comprende il significato e l’importanza autentici dei suoi insegnamenti meno dei posteri. Se Newman ha ragione, l'”idea” del Vaticano ii diverrà più equa, pura e forte man mano che la corrente si allontanerà dalla sorgente e il suo letto diverrà più profondo, ampio e pieno. Lungi dallo svolgersi in un vuoto storico, il concilio Vaticano II ha avuto luogo in un momento di enormi capovolgimenti nella società occidentale, un periodo di euforia ottimistica, ma anche di grande devastazione morale e spirituale. Si è svolto in un periodo di rivoluzione e inevitabilmente “sapeva” del “terreno” degli anni Sessanta, per usare le parole di Newman, dello “stato delle cose” di quel decennio. Di conseguenza, “il suo elemento vitale deve staccarsi da ciò che estraneo e temporaneo”. Dopo il concilio Vaticano i Newman ha costantemente esortato: “Il nostro dovere è la pazienza”. Un anno dopo il concilio Vaticano I, Newman scrisse in una lettera privata: “La nostra saggezza consiste nel (…) pregare affinché Lui, che prima d’ora ha completato un quinto concilio con un secondo, possa fare così anche ora”. Newman, di certo, non pregava per un ulteriore concilio che estendesse e rafforzasse la definizione della infallibilità papale, cosa che senza dubbio sarebbe piaciuta agli ultramontani, ma per un concilio che modificasse la definizione ponendola nella più ampia prospettiva di un insegnamento più esaustivo sulla Chiesa. Nel nostro tempo, non c’è stato un concilio Vaticano III a estendere e a rafforzare i testi conciliari equivalenti come avrebbe voluto l’ala liberale della Chiesa, ma, invece, i Papi, da Paolo VI a Benedetto XVI, si sono adoperati per inserire gli insegnamenti della Chiesa nella più ampia prospettiva della storia e delle tradizioni della Chiesa cosicché il concilio potesse essere compreso in continuità e non in rottura con il passato. Questo ci porta al secondo tipo di sviluppo di cui parla Newman nella sua mini-teologia dei concili. Infatti, non si tratta solo della questione del significato e dell’importanza dell'”idea” del concilio Vaticano II, che diviene più chiaro perché è visto sia alla luce del passato sia nella vita in divenire della Chiesa, ma anche della considerazione del fatto che i concili si aprono a ulteriori sviluppi per via di ciò che non dicono o sottolineano. Nel caso del concilio Vaticano I, Newman notava che l’insegnamento limitato al papato e la mancanza di un insegnamento generale sulla Chiesa avrebbero inaugurato il tipo di sviluppo che avrebbe recato frutto circa un secolo dopo nella Lumen gentium. Nello stesso modo le priorità sarebbero dovute cambiare dopo il Vaticano II sia per le esagerazioni prive di equilibrio dei suoi insegnamenti sia per l’emergere di nuovi problemi. Questo cambiamento, infatti, cominciò a verificarsi subito dopo il concilio. Erano trascorsi soltanto nove anni quando, nel 1974, Papa Paolo VI pubblicò Evangelii nuntiandi, in cui esortò a una nuova evangelizzazione. Infatti, a prescindere dal decreto sulle missioni estere, il concilio Vaticano II non affrontò l’evangelizzazione, che, di certo, sarebbe divenuto un grande tema del pontificato di Giovanni Paolo II. Questi due tipi di sviluppo si sono uniti in un fenomeno post-conciliare inaspettato, che è legato in modo vitale alla nuova evangelizzazione e che è esempio di entrambi i tipi di sviluppo di Newman citati. Si può affermare che il sorgere di nuove comunità e di nuovi movimenti ecclesiali, alcuni dei quali, di fatto, precedenti al concilio, da una parte rappresenta una reazione a ciò in cui il concilio ha fallito o che ha omesso di affrontare, e dall’altra spiega meglio e in modo più evidente i primi due capitoli della Lumen gentium, realizzando in concreto il loro significato e la loro importanza autentici. In generale, si potrebbe dire, che queste comunità e questi movimenti non sono comunità e movimenti laici, sebbene siano stati spesso definiti tali, ma comunità e movimenti ecclesiali. Sono ecclesiali e non laicali perché non sono composti soltanto da laici, ma anche dal clero, da vescovi, da religiosi e da laici consacrati. Il fatto importante è che riuniscono in una comunione organica i battezzati, indipendentemente dal loro status particolare nella Chiesa. È stata questa comunione organica che Newman ha ritratto nella Chiesa del iv secolo nel suo articolo Sulla consultazione dei fedeli in questioni di dottrina. È proprio la comunione organica dei battezzati il soggetto dei primi due capitoli della Lumen gentium, che evita nella maniera più assoluta di parlare della Chiesa nei soliti termini clericali/laici e nella quale i termini perfino non appaiono, essendo il “sacerdozio ministeriale o gerarchico” semplicemente riferito al legame con il sacramento dei santi ordini, quando vengono elencati i sette sacramenti che costituiscono “il sacerdozio comune dei fedeli”. Questo movimento dello Spirito è stato un fenomeno nuovo e speso impopolare in una Chiesa sviluppatasi in modo sempre più clericalizzato, fino a quando l’enfasi del concilio Vaticano II sul laicato non provocò una incisiva reazione a favore della Chiesa laicizzata. Tuttavia, il fenomeno si è prodotto in continuità e non in rottura con la tradizione della Chiesa perché è stato semplicemente un’altra manifestazione della dimensione carismatica della Chiesa in opposizione a quella gerarchica. Questa dimensione carismatica è, di fatto, riferita a tre tempi nei primi due capitoli della Lumen gentium. Questa riscoperta della dimensione carismatica come uno degli “elementi costitutivi” della Chiesa è stata descritta da Papa Giovanni Paolo II come uno dei risultati più importanti del concilio. (Movimenti nella Chiesa: Atti del Congresso Mondiale dei Movimenti Ecclesiali, Roma, 27-29 maggio 1998, Città del Vaticano: Pontificium Consilium pro Laicis, 1999, 221). La Lumen gentium ha utilizzato il nuovo termine teologico “carisma”, traslitterazione della parola greca del Nuovo Testamento charisma, invece dell’espressione tomista gratia gratis data (“grazia data liberamente”). Com’è naturale, dunque, Newman non utilizza il termine carisma. Però, l’idea di grazie speciali donate agli individui a beneficio di tutta la Chiesa è stata una parte importante del pensiero di Newman sia come anglicano sia come cattolico. Il Newman anglicano comprese bene il significato immenso del carisma monastico quando la Chiesa non era più perseguitata, ma era divenuta la religione di Stato e correva il rischio di diventare troppo di questo mondo. In altre parole, la dimensione carismatica della Chiesa è essenziale per i cristiani che desiderano praticare la propria fede in un modo più impegnato e devoto. Come la Lumen gentium, Newman insiste sul fatto che i carismi hanno bisogno di una gerarchia che li regoli: “L’entusiasmo viene moderato e raffinato sottomettendolo alla disciplina della Chiesa invece di lasciarlo libero di esprimersi al di fuori di quest’ultima”. Newman fu sempre consapevole del fatto che i carismi non vengono donati a beneficio solo di chi li riceve, ma anche di tutta la Chiesa. Quindi essi sono la risposta dello Spirito Santo alle necessità specifiche della Chiesa in un determinato momento. Dopo la conversione, Newman divenne oratoriano. Pensò, infatti, che quel carisma fosse importante nella Riforma cattolica per la rigenerazione del clero diocesano. Ciononostante, per certi versi considerò gli oratoriali anche come i primi monaci, che neanche emettevano voti. Newman riteneva che il carisma di san Filippo risalisse in maniera evidente al cristianesimo primitivo che era “semplice e puro” e al quale, non da ultimo, partecipavano in via straordinaria per quel tempo, anche i laici. In un sermone del 1850 definì i santi Benedetto, Domenico e Ignazio “tre venerabili Patriarchi i cui Ordini si spartiscono l’ampiezza della storia cristiana”. Di certo, Filippo fu una figura minore se paragonato a quei giganti, ma Newman ha evidenziato che “egli imparò da tutti tre in successione”. Sebbene nel suo vocabolario non vi fosse il termine “carisma” e vivesse in un’epoca nella quale la dimensione gerarchica della Chiesa era estrema, Newman non sottovalutò mai il significato della dimensione carismatica. Newman in realtà anticipò i movimenti e le comunità ecclesiali del XX secolo, non solo attraverso la sua ecclesiologia di comunione organica, ma anche nella pratica. Infatti guidò un movimento del proprio tempo, il Movimento di Oxford o Trattariano, che lungi dall’essere un’associazione clericale, come alcuni dei suoi fautori avevano inizialmente desiderato, consistette di laici e di ecclesiastici ed ebbe fra i suoi membri più importanti proprio dei laici. In seguito, al momento del ripristino della gerarchia cattolica nel 1850, Newman sperò che un movimento del genere potesse sorgere per sostenere la causa cattolica, ma la natura clericale del cattolicesimo del XIX secolo lo impedì. L’importanza che Newman attribuiva alla dimensione carismatica della Chiesa è in pieno accordo con l’insegnamento della Lumen gentium. L’importanza delle grandi figure carismatiche della Riforma cattolica nel XVI secolo è indubbia. In particolare senza sant’Ignazio di Loyola e senza la Società di Gesù è difficile capire in che modo avrebbero potuto realizzarsi le riforme del concilio di Trento. Nello stesso modo, non possiamo allora affermare che la realizzazione autentica degli insegnamenti del Vaticano II, ovvero una realizzazione in continuità e non in rottura con la tradizione della Chiesa, è inseparabile dai carismi che lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa nell’ultima metà del XX secolo? Di certo, i movimenti e le comunità ecclesiali che Papa Benedetto XVI ha definito il quinto grande movimento dello Spirito nella storia della Chiesa (Movimenti nella Chiesa, 23, 51), sembrano manifestare due tipi di sviluppo che, secondo Newman, sarebbero i risultati caratteristici del concilio.
(© L’Osservatore Romano – 26 novembre 2010)