«Finalmente libero dopo un viaggio faticoso e triste»
Riportiamo ampi stralci dell’omelia del cardinale arcivescovo di Milano tenuta durante la messa di chiusura del convegno “John Henry Newman oggi: logos e dialogo”, celebrata nella cappella dell’Università Cattolica del Sacro Cuore venerdì 27 marzo.
di Dionigi Tettamanzi
Si presenta davvero interessante e originale la vicenda biografica di Newman: è come un itinerario pasquale, un cammino difficile e insieme affascinante che lo conduce a raggiungere la luce della verità, la verità tutta intera.
Newman sapeva entrare con passione nella storia della Chiesa, nella vita dei santi, nella loro vita interiore. Così lo sentiamo molto vicino a questo nostro tempo e – vorrei aggiungere – veramente in sintonia con la Chiesa milanese. Come sappiamo, mentre era in viaggio verso Roma, Newman soggiornò poco più di un mese a Milano nel 1846. Il 9 ottobre di quell’anno, ricorrendo il primo anniversario della sua conversione, scriverà: “Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa cattolica e ogni giorno benedico Lui che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l’amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste”. E qui, “nella città di sant’Ambrogio – rileva – uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra”. E aggiunge: “Inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato…”. E ancora: “È meraviglioso andare nella chiesa di Sant’Ambrogio – dove si trova il suo corpo – e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro santo fin da quando ero ragazzo. Sant’Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l’imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!…”. Infine un’ultima testimonianza che troviamo nell’Apologia pro vita sua e che ci dice il tipo di conoscenza necessario per giungere alla verità e per vivere l’esperienza cristiana come esperienza di Chiesa: “Sentivo tutta la forza della massima di sant’Ambrogio, il quale scriveva nel De fide: “Non piacque a Dio di operare la salvezza del suo popolo mediante la dialettica””. E ancora: “Per me non era la logica a farmi andare avanti, … si ragiona con tutto l’essere, nella sua concretezza” (Apologia pro vita sua, pp. 196-197).
Quella di Newman fu sempre una appassionata, rigorosa e completa ricerca della verità, che alla fine lo avrebbe condotto a riconoscere la persona e la missione di Cristo, così come è custodita dalla Chiesa cattolica.
La verità è un’esperienza molto complessa nella quale convergono gli elementi oggettivi e l’apporto intero e diretto di tutta la persona che cerca, spera ed è disposta a trovare. La verità si raggiunge attraverso la cosiddetta “grammatica dell’assenso”, che è chiara nel suo procedere – non confusa, non incerta, non equivoca o ambivalente – e che insieme esige anche un chiaro e impegnativo coinvolgimento di chi indaga, un ossequio della sua mente e del suo cuore, un’esperienza di meraviglia, di riconoscenza, di obbedienza. La verità quindi si dà soltanto in un incontro storico e reale. In concreto la verità è un rapporto profondo che si stabilisce con la persona di Gesù.
Aderire alla rivelazione divina dunque non è questione semplicemente intellettuale, razionale, ma è questione densamente antropologica, che coinvolge la totalità della persona nel suo rapporto con la persona di Cristo, più precisamente con Cristo che soffre, muore e risorge per noi; che ci promette il suo Spirito – anima vera della storia, alimento di ogni nostro pensare e sentire – lo Spirito che raduna e dispone nella Chiesa ogni approdo di ricerca e di fedeltà.
Un altro passo. Nella ricerca sincera della verità, Newman ci insegna la gioia del dialogo, che dice la valorizzazione, l’apprezzamento dell’onestà intellettuale del proprio interlocutore e insieme il rispetto reciproco di fronte a qualcosa che ci precede e che è più grande di noi. La verità infatti non dipende innanzitutto dal soggetto che indaga, ma piuttosto si mostra nella forma di una rivelazione gratuita: proprio questo rende fruttuoso l’incontro tra coloro che dialogano davvero.
E con il dialogo, ecco che Newman con la sua esperienza di vita e di ricerca della verità ci apre al concetto di missione. Essere missionari significa stabilire una relazione diretta tra maestro e discepoli; significa che lo spirito dell’uno si incontra con quello dell’altro, che una buona predisposizione li lega e li costringe a un benefico confronto, insegnando loro l’ascolto vero e il rispetto nobile.
In particolare è nei suoi Sermoni che Newman mette in luce come deve essere la figura del predicatore, che oggi chiameremmo la figura del cristiano missionario. Egli è convinto che per trasmettere la verità della fede in Gesù Cristo non bastano le parole di un ragionamento ben strutturato sotto il profilo razionale, ma è necessaria una persona che incontra con determinatezza il cuore dell’altro. “Determinatezza” è per Newman un termine molto ricco e denso: significa un ragionare ordinato, una passione viva e un’esperienza reale. La determinatezza esige aderenza ai bisogni delle persone, comporta coinvolgimento affettivo. Ecco, per esempio, come descrive il rapporto tra il predicatore del Vangelo e coloro che ascoltano la Parola: “Essi pendono dalle sue labbra non come potrebbero pendere dalle pagine di un libro. La determinatezza è la vita della predicazione… Il sermone non potrà venire da qualcosa di anonimo, da qualcosa di morto e di passato e neppure da qualcosa che è di ieri, per quanto in se stesso utile e religioso” (Sermoni universitari. L’idea di università, Torino 1988, p. 1102).
Ora, continua Newman, l’apostolo per declinare efficacemente la sua testimonianza dovrà vivere un’esperienza di intensa preghiera. Il pensiero alla Pasqua, nella quale Gesù muore per noi, conduce Newman a indicare nell’umiltà e nella riparazione la via autentica verso la contemplazione della passione del Signore. E così Gesù, il “povero maltrattato”, diventa l’oggetto della sua preghiera e il giusto perseguitato diventa il suo salvatore: “Dio mio, che ne sarà di me? – scrive Newman – Dove andrò a finire se sarò abbandonato a me stesso? Che cosa posso fare se non andare da colui che ho gravemente offeso e insultato, e chiedergli di rimettermi il debito che ho con lui? O Gesù, mio Signore, il cui amore per me è stato così grande da scendere dal cielo per salvarmi; mostrami caro Signore il mio peccato, insegnami a pentirmene, e perdonami nella tua grande misericordia” (Meditations and devotions, 251-252).
In realtà la preghiera in tutte le sue forme ed espressioni ha sempre vivificato la mente e il cuore di Newman, dalla sua infanzia fino al giorno della sua morte. Si tratta di una preghiera che per lui è sempre stata fondata nella fede in un Dio personale. Ha sempre sentito nel cuore una voce più grande del dettame della sua natura e questo lo manifesta scrivendo che si tratta “dell’eco di una persona che mi parla. Essa porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura la sente in tutto e per tutto come una persona. Quando le disobbedisco mi sento afflitto, proprio come quello che provo nel compiacere o nell’offendere un amico degno di rispetto” (Callista, 314).
Nell’intreccio inseparabile tra l’affermazione di un Dio personale, la coltivazione della coscienza e la conoscenza del dogma, Newman ha sempre considerato la preghiera come un dovere e come un privilegio. È stato profondamente affascinato dalla preghiera di intercessione, da lui definita come “la prerogativa e il dono degli obbedienti e dei santi”. Nella preghiera di intercessione mette in risalto la dignità divina, la possibilità che il peccatore diventi un amico, un confidente di Dio, in grado di raccogliere l’universo intero e di presentarlo al suo Signore. In questa preghiera Dio ci concede il potere fortissimo di influire non solo sul percorso vitale della nostra anima, ma sul futuro di tutta la storia.
A un certo punto, nella sua lunga esperienza di preghiera, di mortificazione e di penitenza, accompagnata sempre da una adorazione umile e perseverante, apparve a Newman quella luce che lo condusse il 9 ottobre 1845 a “sentirsi raccolto nell’unico ovile di Cristo” (Apologia, 207). “Avevo l’impressione – scriveva nel 1864 – di entrare nel porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora fino a oggi, è rimasta inalterata” (Apologia, 211). Era questa solo una tappa del suo lungo viaggio: sarebbe continuata in lui un’eroica e incessante lotta interiore, accompagnata sempre da una grande libertà di coscienza. Le questioni religiose e filosofiche della sua epoca si sarebbero progressivamente risolte attraverso una singolare capacità di dialogo con molte persone. Il suo procedere apologetico lo rendeva metodico e preciso. Con la sua capacità di umiltà e di perseveranza, divenne un esempio di guida spirituale, temprata dalle lotte affrontate e dalla diffidenza da cui in diverse occasioni si sentì circondato.
Possiamo certamente dire che la sua vita, definita da molti un “olocausto alla verità”, rimane un punto di riferimento per tutti noi. Di fronte alle nostre preoccupazioni e ai difficili discernimenti che la società contemporanea ci impone, Newman ci insegna attraverso i suoi scritti e con il suo esempio a mantenere un certo distacco dalle preoccupazioni materiali della vita, per lasciar posto dentro di noi alla crescita dell’amore di Dio, perché ogni nostro affanno, ogni atteggiamento di fede e ogni moto interiore della preghiera devono nascere e trovare il loro compimento solo nella carità divina.
I nostri giorni ci obbligano a ritrovare un pensiero robusto e una pratica cristiana aperta e lungimirante, dentro la quale la ricerca teologica, l’interpretazione della cultura e il sentire ecclesiale siano sempre accompagnati da una vera esperienza spirituale.
È il nostro cammino verso la Pasqua nella quale ritroviamo sempre la rivelazione della gloria di Dio nella vita della Chiesa e nella storia del mondo. Al termine di questo cammino ci attende la pace vera.
(©L’Osservatore Romano – 29 marzo 2009)