P. Hermann Geissler, FSO
“Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero”[1].
Queste parole del Cardinale Joseph Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI, mettono in evidenza una dimensione importante del Venerabile Cardinale John Henry Newman, fondatore dell’Oratorio di Birmingham e grande modello di pastore e di sacerdote per noi tutti. In questa meditazione vorrei ricordare e attualizzare alcuni aspetti caratteristici della sua vita e del suo pensiero, aspetti che potrebbero essere anche utili per il grande tema della formazione sacerdotale nel nostro tempo.
1. Il primato di Dio
Nato il 21 febbraio 1801 a Londra ed educato nella confessione anglicana, Newman già da giovane aveva un forte senso religioso che si esprimeva principalmente nella lettura della Bibbia. La Sacra Scrittura gli diede, fin dai primi anni, regole morali elevate, ma le sue potenzialità intellettuali necessitavano di un qualcosa di più preciso e definito. Ben presto, a solo quattordici anni, subì la tentazione dell’incredulità e dell’autosufficienza. Voleva essere un gentleman, ma non credere in Dio; mirava ad essere buono, ma non religioso; non avevo capito che senso avrebbe amare Dio.
Mentre lottava con questa tentazione, Dio bussò al cuore del giovane studente. Nelle vacanze del 1816 egli lesse il libro La forza della verità di Thomas Scott e fu profondamente colpito dal suo contenuto. Di seguito sperimentò la sua “prima conversione”, che egli stesso considerò come una delle più importanti grazie della sua vita: si trattava di una acuta consapevolezza dell’esistenza e della presenza di Dio e del mondo invisibile. Nell’Apologia pro vita sua[2] confessò che quest’esperienza ebbe un grande influsso sulla sua persona “isolandomi, cioè, dalle cose che mi circondavano, confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore” (A 137-138).
Sin da questa prima conversione Newman cercò di amare Dio sopra ogni cosa e di seguire la Verità senza compromesso. “Quando avevo quindici anni (nell’autunno del 1816) si verificò in me un grande cambiamento di idee. Subii l’influenza di un credo definito, e accettai nella mia mente alcune impressioni del dogma che, per la misericordia di Dio, non si sono mai più cancellate od oscurate” (A 136). Cominciò quindi a rendersi conto dell’importanza delle grandi verità cristiane: l’incarnazione del Figlio di Dio, l’opera della redenzione, il dono dello Spirito che abita nell’anima del battezzato.
La prima conversione di Newman era un’esperienza molto profonda e personale, un’esperienza nella coscienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e tutti i suoi impegni. Sin da quel tempo cercava soprattutto di mantenere vivo il legame con Dio, di rimanere nella sua presenza, di seguire la sua volontà. Il mondo invisibile di Dio diventava per lui più reale del mondo visibile. Il suo rapporto personale con Dio trovò espressione in tante preghiere che ancora oggi toccano il cuore dei fedeli. Ne cito soltanto una: O Dio, “sono peccatore, ma finché ti sarò fedele, tu mi sarai fedele sino alla fine e sovrabbondantemente. Io posso riposarmi tra le tue braccia; posso addormentarmi sul tuo seno. Dammi solo ed aumenta in me quella sincera lealtà verso di te, che è il vincolo dell’alleanza tra me e te, ed il pegno nel mio cuore e nella mia coscienza, che tu, il Dio supremo, non mi abbandonerai”[3].
Oggi si sottolineano, con ragione, molti aspetti e presupposti che sono importanti per la formazione dei futuri sacerdoti. Un aspetto assai importante e spesso trascurato mi sembra essere quello del primato di Dio. Le nostre società occidentali sono nel pericolo di organizzarsi sempre di più senza Dio e talvolta anche contro Dio. Il sacerdote è chiamato ad essere soprattutto un uomo che vive in una profonda amicizia con Dio, che si mette in ascolto di Dio, che parla di Dio, che conduce a Dio. Quando parliamo di Dio, ci riferiamo ovviamente a quel Dio che in Gesù Cristo ci ha mostrato il suo volto e ci ha aperto il suo cuore. Il primato di Dio è pertanto il primato di Cristo, che è per tutti i credenti, ma in primo luogo per i suoi ministri “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). “Simone di Giovanni, mi ami?” (Gv 21,15). Questa domanda del Signore risorto a Pietro è la domanda fondamentale per tutti i pastori, per tutti i seminaristi. Cerchiamo di rispondere sempre di nuovo, con le parole di Pietro, “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo” (Gv 21,17).
2. La responsabilità per le anime
Ma ritorniamo a Newman. Un anno dopo la prima conversione, il giovane studente entrò nel Trinity College a Oxford per dedicarsi allo studio della teologia anglicana. Dopo solo tre ani fece gli esami finali e divenne, poco tempo più tardi, professore (fellow) nel famoso Oriel College.
In quel periodo egli cercò di formare la sua mente e di seguire con diligenza i richiami della sua coscienza. In tal modo capì sempre più chiaramente che Dio lo chiamava al suo servizio. Nel 1824 fu ordinato diacono nella Church of England. Il tempo di preparazione a quest’ordinazione può essere considerato una seconda tappa decisiva per la sua vita, che gli apre una nuova dimensione: capì che era chiamato al servizio, che negli occhi di Dio aveva una responsabilità non soltanto per se stesso, ma anche per gli altri. Nel giorno dell’ordinazione diaconale scrisse nel suo diario le seguenti parole assai significative: “Ora sono responsabile per le anime fino al giorno della mia morte”[4].
Si può dire che il desiderio di Dio che Newman sentì dopo la prima conversione aveva ancora dei segni individualistici: “me e il mio Creatore”. Adesso capiva che il vero servizio di Dio include necessariamente il servizio degli altri, il servizio ecclesiale. Scopriva così la dimensione pastorale e comunitaria della sua vocazione.
Dopo l’ordinazione diaconale, accanto al compito di professore all’Oriel College, Newman si impegnò nella cura pastorale nella povera parrocchia di San Clemente ad Oxford. Predicava ogni domenica nella chiesa e cominciava a visitare i parrocchiani a casa. Tale metodo pastorale, la visita pastorale a casa, costituiva una grande novità in quell’epoca e fa vedere un aspetto fondamentale della personalità di Newman, cioè la sua profonda convinzione che nella testimonianza dei valori umani, spirituali e religiosi molto dipende dal contatto personale.
Due anni dopo, già ordinato presbitero anglicano, Newman dovette lasciare la parrocchia di San Clemente perché divenne formatore (tutor) all’Oriel College. Come tale si impegnò molto per gli studenti, cercando di formare la loro mente, ma anche il loro carattere e la loro coscienza, di sviluppare tutte le loro facoltà, di educare tutta la loro persona.
Poco dopo, Newman ricevette anche l’incarico di parroco della chiesa universitaria di Santa Maria ad Oxford, dove era solito predicare ogni domenica. Questi sermoni avevano un forte impatto sugli studenti e sui professori. Alla parrocchia universitaria apparteneva anche un piccolo villaggio vicino a Oxford, chiamato Littlemore. Regolarmente Newman visitava i parrocchiani di questo villaggio. Fece costruire per loro una chiesa e una scuola, segno che si impegnava sempre per la formazione sia della fede che delle facoltà intellettuali e umane.
A partire da queste esperienze, Newman precisava più tardi, soprattutto nel suo capolavoro Idea di università, che ogni vera formazione deve comprendere tre dimensioni che non possono essere separate l’una dall’altra: la scienza, la virtù e la religione. Egli fu davvero un protagonista della formazione personale e integrale.
Ma il più intimo nucleo del suo impegno educativo stava nella sua convinzione di avere una grande responsabilità per le anime. Per questo cercava di venire incontro ad ogni uomo, di capire la sua situazione personale, di offrirgli un buon consiglio, di educare e formare la sua coscienza. Più di 20 mila lettere, scritte da lui e raccolte in 34 grossi volumi, testimoniano tale senso di responsabilità, che è espressione di un profondo amore pastorale, di un grande zelo per le anime. Non per caso Newman scelse da Cardinale il motto Cor ad cor loquitur: si sentì toccato dal cuore di Dio e si impegnò con forza per toccare il cuore e la coscienza degli uomini.
L’uomo di oggi è spesso caratterizzato da un forte individualismo, pensa soprattutto a sé stesso e non percepisce facilmente che è responsabile anche per il fratello, per la sorella, per la comunità, per la Chiesa, per le persone in necessità. Ma il sacerdozio è una vocazione per gli altri, è un servizio che comporta una grande responsabilità per le anime, è la chiamata per essere un padre spirituale secondo l’esempio di San Paolo: “Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori” (1 Cor 4,15-16). Mi pare importante sviluppare nei seminaristi questo senso di responsabilità e di paternità spirituale – non per seminare angoscia o paura, ma per far vedere con chiarezza l’identità e la grande missione del sacerdote.
3. La fiducia nella provvidenza
Newman considerò il suo incarico di tutor come un ministero propriamente pastorale. Voleva essere un amico e un padre spirituale per gli studenti e cercava di formarli secondo i solidi principi del Vangelo. Non tollerava certi comportamenti mondani, intendeva mantenere un clima sereno e una disciplina ferma. Questo modo di educare, tuttavia, non piacque al Provost Hawkins, capo liberale del College, che decise di non affidare più studenti al professor Newman.
Preoccupato dall’influsso crescente del liberalismo religioso e affaticato dal suo primo grande libro su Gli ariani del quarto secolo, nel 1832 Newman decise di intraprendere un viaggio attraverso il Mediterraneo. Andò anche in Sicilia, dove si ammalò gravemente. Le esperienze durante questa malattia possono essere considerate come una terza tappa importante del pellegrinaggio interiore di Newman.
Scrisse in proposito: “A Leonforte fui preso dalla febbre. Il mio servitore credette che stessi per morire e chiese le mie ultime disposizioni. Gliele diedi, come aveva chiesto, ma dissi: ‘Non morirò’. Ripetei: ‘Non morirò, perché non ho peccato contro la luce, non ho peccato contro la luce’. Non sono mai stato capace di spiegarmi del tutto cosa volessi dire” (A 172). Durante questa malattia Newman vide nel più profondo della sua anima che aveva servito il Signore e i fratelli, ma notò anche il suo orgoglio e sentì il pressante invito a donarsi a Dio con più umiltà e a seguire la sua luce con più fedeltà. Sperimentò una “lotta” e la posta della lotta fu ben alta: si trattava di rinunciare alla propria volontà, ad una certa indipendenza nel giudizio, ad ogni passione segreta che l’allontanerebbe da una vita nella quale Dio deve restare il Maestro, l’unico Maestro.
Ritornando in Inghilterra, scrisse la famosa poesia Lead Kindly Light (Guidami, luce gentile), nella quale diede espressione all’esperienza vissuta durante la malattia in Sicilia. Ecco il testo di quel celebre poema.
“Guidami, luce gentile, tra la tenebra, guidami tu!
Nera è la notte, lontana la casa – guidami tu!
Reggi i miei passi; cose lontane
non voglio vedere – mi basta un passo.
Così non fui mai; né ti pregai così, per la tua guida.
Amavo scegliere la mia strada; ma ora guidami tu!
Amavo il giorno chiaro, l’orgoglio mi guidava,
disprezzavo la paura: non ricordare quegli anni.
Sempre mi benedisse la tua potenza; ancor oggi mi guiderà
per paludi e brughiere, per monti e torrenti, finché svanisca la notte
e mi sorridano all’alba i volti d’angeli
amati a lungo e perduti ora”.
L’esperienza della propria peccaminosità (“amavo scegliere la mia strada”, “l’orgoglio mi guidava”), sempre presente nella vita di Newman, non lo scoraggiò, ma lo condusse ad una umile fiducia nella provvidenza (“guidami, luce gentile… mi basta un passo”). Di conseguenza, egli si abbandonò totalmente alla bontà e alla guida di Dio.
In una bella meditazione Newman scrive: “O mio Dio, tutta la mia vita non è che una catena di misericordie e di benefici, diffusi sopra di un essere che ne è indegno. Non ho bisogno della fede per credere alla tua provvidenza verso di me, giacché no ho fatto lunga esperienza. Tu mi hai condotto d’anno in anno, mi hai allontanato dalle strade pericolose, mi hai ritrovato se smarrito, mi hai rianimato, ristorato, mi hai sopportato, mi ha diretto, mi hai sostenuto. O, non abbandonarmi nel momento in cui la forza mi vien meno! Tu non mi abbandona mai! Io posso riposarmi in te con sicurezza” (MD 421).
Ai nostri giorni possiamo notare una strana ambivalenza nei confronti della realtà del peccato: da una parte si tende a negare o minimizzare molti peccati, d’altra parte si osserva uno scoraggiamento di molti che soffrono sotto il giogo dei peccati propri ed altrui. Tale scoraggiamento è diffuso anche all’interno della Chiesa e specialmente tra i sacerdoti. Ciò che manca spesso è l’umiltà di ammettere i propri peccati, di affidarsi totalmente alla misericordia del Signore e di continuare il proprio cammino. I seminaristi devono perseverare sul cammino di una profonda conversione del cuore e crescere nello stesso tempo nell’abbandono al Signore, nella certezza che Egli guida la Chiesa e ogni persona, nella fiducia che non siamo mai soli, ma che possiamo sempre contare sulla sua misericordia e affidarci alla sua provvidenza. Dice il Signore risorto a tutti noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
4. Il coraggio della verità
Per combattere l’influsso crescente del liberalismo a Oxford e in tutta l’Inghilterra, nel 1833 Newman iniziò, insieme con alcuni amici, il cosiddetto Movimento di Oxford. I suoi promotori denunciarono il distacco della nazione inglese dalla pratica della fede e lottarono per un ritorno al cristianesimo primitivo, attraverso una solida riforma dogmatica, spirituale e liturgica. Newman riassume il principio fondamentale del Movimento con queste parole: “Ciò che combattevo era il liberalismo, e per liberalismo intendo il principio antidogmatico con tutte le sue conseguenze… Dall’età di quindici anni il dogma è stato il principio fondamentale della mia religione: non conosco altra religione; non riesco a capire nessun’altra specie di religione; una religione ridotta a un semplice sentimento per me è un sogno e un inganno. Come non ci può essere amore filiale senza l’esistenza di un padre, così non ci può essere devozione senza la realtà di un Essere Supremo” (A 187-188).
Con la pubblicazione di trattati di facile divulgazione, il Movimento di Oxford cercò di penetrare nella coscienza degli ecclesiastici come anche in quella dei semplici fedeli, posta fra due estremi: da una parte il sentimentalismo e dall’altra il razionalismo. Newman si rese conto che la polemica contro il liberalismo aveva bisogno di un buon fondamento dottrinale. Fu convinto di aver trovato questo fondamento negli scritti dei Padri della Chiesa, i quali ammirava come i veri araldi e dottori della verità cristiana.
Mentre il Movimento si diffondeva, Newman sviluppò la teoria della Via media. Con essa intendeva dimostrare che la Comunione anglicana era l’erede legittima della prima cristianità e la vera Chiesa in Cristo in quanto non presentava né gli errori dottrinali dei protestanti né le corruzioni e gli abusi che pensava di vedere nella Chiesa di Roma. I cardini della Via media furono il dogma, il sistema sacramentale e l’antiromanesimo. Ma studiando la storia della Chiesa del quarto secolo, Newman fece una grande scoperta: trovò rispecchiata nei tre gruppi di allora la cristianità del suo secolo – negli ariani i protestanti, nei romani la Chiesa di Roma, nei semi-ariani gli anglicani. Poco dopo lesse un articolo in cui si paragonava la posizione dei donatisti africani al tempo di Agostino con quella degli anglicani. Newman non poteva più dimenticare la frase Securus iudicat orbem terrarum, citata da sant’Agostino, ovvero, nella traduzione dello stesso Newman: “Il giudizio deliberato a cui finalmente tutta la Chiesa si rimette e si acquieta, è una regola infallibile” (A 257). Egli capiva che nella Chiesa antica i conflitti dottrinali venivano risolti non soltanto in base al principio dell’antichità, ma anche in base a quello della cattolicità: il giudizio della Chiesa intera è decreto infallibile. Di conseguenza, “la teoria della Via media era assolutamente polverizzata” (A 257).
Fedele al principio di ossequiare sempre la verità, Newman decise di ritirarsi a Littlemore per un periodo di preghiera e di studio. Iniziava a tirare le fila di una riflessione che lo accompagnava già da anni: se la Chiesa cattolica romana è nella continuità apostolica, come giustificare quelle dottrine che non sembravano far parte del patrimonio di fede della prima cristianità? Il principio dell’autentico sviluppo, che egli elaborò, gli permise di rendere ragione dei vari nuovi insegnamenti nella vita della Chiesa: i dogmi più tardi erano sviluppi autentici della Rivelazione originale. Questo argomento, decisivo per il suo futuro, egli ha illustrato nel suo famoso saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana.
Mentre Newman procedeva con tale studio, comprese che la Chiesa di Roma era la Chiesa dei Padri, la vera Chiesa di Cristo. Nell’Apologia scrive: “Man mano che progredivo le mie difficoltà scomparivano, sicché cessai di parlare di cattolici romani e li chiamai in tutta libertà cattolici. Prima di arrivare alla fine, risolvetti di chiedere di essere ammesso fra loro, e il libro è rimasto allo stato in cui si trovava allora, incompiuto” (A 375). Il 9 ottobre 1845 John Henry Newman abbracciò la fede cattolica e nel suo oratorio a Littlemore fu accolto dal beato Domenico Barberi, un passionista italiano, “nell’unico ovile di Cristo” (A 375). Scrisse in merito: “Dal giorno in cui divenni cattolico…, non ho avuto alcuna inquietudine nello spirito. Mi sono trovato nella più perfetta pace e tranquillità; non ho mai avuto alcun dubbio… fu come entrare in porto dopo essere stati nel mare in burrasca; e la mia felicità, a questo riguardo, dura ininterrotta fino ad oggi” (A 378).
Il nostro tempo è caratterizzato, tra l’altro, dal relativismo, l’idea che nelle questioni religiose non si potrebbe parlare di verità, ma soltanto di opinione e che sarebbe impossibile, anzi discriminante affermare che una religione o una Chiesa costituirebbe quella vera. Esiste inoltre una notevole ignoranza e confusione, tra gli stessi fedeli, circa gli aspetti fondamentali della fede cristiana. Da Newman possiamo imparare cosa significa cercare e seguire la verità, egli ci insegna il coraggio della verità. Pare importante offrire ai seminaristi una solida formazione dottrinale. Il mondo di oggi ha bisogno di sacerdoti che conoscono a fondo la verità della fede; in merito abbiamo a disposizione mezzi assai opportuni, se pensiamo al Catechismo della Chiesa Cattolica e al Compendio. Il mondo ha bisogno di uomini che annunciano la verità con la parola e con la coerenza della vita. Il mondo ha bisogno di testimoni che sono convinti, in coscienza, della verità cattolica, che amano la Chiesa, sono cattolici felici, sacerdoti felici.
5. La partecipazione alla croce
Nella Chiesa cattolica Newman aveva trovato la pace del cuore; dopo alcuni mesi di preparazione nel Collegio di Propaganda Fide a Roma, fu ordinato sacerdote cattolico. In questo tempo faceva conoscenza dell’Oratorio di San Filippo e decise di farsi Oratoriani e di fondare, insieme con i suoi amici convertiti, un Oratorio in Inghilterra. Lo spirito di San Filippo gli piacque tanto. Scrisse in una preghiera che scaturisce dal suo cuore: “O mio Dio… M’hai dato san Filippo, questa grande creazione della tua grazia, come patrono e maestro; ed io mi son rimesso a lui, ed egli ha fatto per me grandissime cose; ha, in più modi, compiuto nei miei riguardi tutto quello su cui poteva legittimamente contare ch’egli avesse promesso” (MD 245).
Nonostante la gioia di aver finalmente trovato la vera Chiesa e la propria vocazione, in questi anni Newman doveva subire una prova dopo l’altra e una delusione dopo l’altra. Nell’opinione pubblica molti uomini dubitavano della sua integrità personale, perché non erano in grado di capire come un uomo tanto intelligente avesse potuto lasciare la Church of England, unendosi ad un piccolo gruppo di cattolici, posti ai margini e apertamente disprezzati dalla società inglese di allora. Da parte degli anglicani Newman era considerato un traditore, un uomo squilibrato che si era associato ad una comunità corrotta, in contraddizione con il vero cristianesimo e legata alla causa dell’Anticristo.
Ma anche da parte dei fratelli cattolici doveva subire per quasi vent’anni incomprensione, diffidenza, sospetto e persino calunnia. Possiamo menzionare soltanto alcune di queste esperienze.
Nella comunità dell’Oratorio, fondato da Newman a Maryvale e poi a Birmingham, si manifestavano presto gravi contrasti che facevano soffrire l’anima sensibile di Newman. Egli, infatti, non poteva accettare lo stile, per lui aggressivo e semplicistico, di Frederick William Faber, che era responsabile per i novizi. Dopo poco tempo, Faber emigrò a Londra con parecchi suoi compagni, fondandovi un secondo Oratorio. Questa separazione non era la rottura tra Newman e il gruppo di Faber, ma una fonte di innumerevoli malintesi e conflitti d’intenzione.
Nel 1851 Newman fu chiamato dai Vescovi dell’Irlanda a fondare una Università cattolica a Dublino, per l’ex tutor dell’Oriel College una meravigliosa e inattesa occasione di ritrovare la parte universitaria e la funzione di primo piano degna del suo genio. Newman si mise all’opera con grande zelo e tanti sacrifici, preparò una serie di discorsi, poi pubblicati sotto il titolo Idea di università, e fu nominato primo Rettore. Secondo il pensiero di Newman, l’Università cattolica doveva dare ai cattolici lo strumento di cultura e di formazione di una élite generosa e pienamente aperta ai problemi del tempo, capace di integrarsi nella società per assumervi una parte e un’influenza adeguate. Ma le sue idee non furono condivise dai Vescovi dell’Irlanda che volevano una Università difensiva, anti-protestante, clericale. Dopo molte delusioni, nel 1858 Newman prese atto del fatto che il progetto era fallito e dovette dimettersi dalla sua funzione di Rettore.
Nello stesso anno Newman fu sollecitato dai Vescovi inglesi per un nuovo compito, difficile, ma per lui affascinante. Si trattava di una nuova traduzione inglese della Bibbia. Si accingeva con ardore al lavoro, trovava dei collaboratori, redigeva personalmente una prefazione, quando apprese che i vescovi americani stavano preparando anch’essi una versione inglese della Scrittura. Nessuno informava lo sfortunato Newman che dovette disimpegnarsi al più presto.
Nel 1859 Newman, dopo aversi consigliato col suo vescovo, accettò l’incarico di direttore di una rivista, il Rambler, che cercò di affrontare i problemi di attualità, ma era stato guidato male. Il noto convertito vedeva in questa rivista l’occasione di dare una tribuna a un pensiero cattolico che non era ancora riuscito ad esprimersi nello stile equilibrato e generoso che aveva il diritto d’attendersi. Godendo di un indiscusso prestigio intellettuale, Newman poteva offrire alla Chiesa del suo paese un foro per il dialogo tra fede e scienza, tra Chiesa e società. Nel 1859 pubblicò due articoli sul posto dei laici nella Chiesa, affermando, con le necessarie precisazioni teologiche e una solida argomentazione storica, che essi hanno il diritto di affermare il consenso della loro fede su questioni dottrinali. Dopo questi articoli, che sono di una ortodossia indiscutibile, parecchi Presuli lo denunciarono con estremo vigore e lo costrinsero, tramite il suo vescovo, di dimettersi dalla direzione del Rambler.
Ma i suddetti articoli furono denunciati anche a Roma. Una nota di Newman, contenente utili spiegazioni, non arrivò mai alla Congregazione di Propaganda Fide e per alcuni anni Newman fu sospettato di eresia. Inoltre certi Prelati, della frazione ultramontana, creavano a Roma l’impressione che Newman sarebbe pericoloso e inaffidabile. Famosa è la frase di Mons. George Talbot, che definiva Newman “l’uomo più pericoloso di tutta l’Inghilterra”. Tutti questi sospetti non avevano alcun fondamento, ma erano il frutto di intrighi e di negligenze da parte di cattolici. Soltanto dopo la pubblicazione dell’Apologia pro vita sua nel 1864 la buona fama di Newman era riabilitata.
Come Newman poteva portare queste sofferenze, questa pesante croce? Unendosi alla croce del Signore e sentendosi in sintonia con Gesù sofferente. È significativa a proposito una testimonianza di una semplice donna di Birmingham, che nel 1862 disse a un padre dell’Oratorio: “Newman era molto convincente nella catechesi sulla croce. Povero Padre, egli sa bene come si parla della croce”. Newman accettava tutte le prove con una spirito di penitenza e di pazienza. “Non mi stupisco per le prove; è la nostra sorte”[5]. Sapeva che sulla scia del Signore bisogna soffrire per la verità: “Per tutta la mia vita, ho predicato di soffrire per la verità; ora è il mio turno”[6]. Newman non cercava di giustificarsi, lasciava la sua giustificazione a Dio: “Credo che il tempo sia il supremo rimedio e il vendicatore di tutti i mali del mondo che prospera. Se siamo pazienti, Dio lavora con noi. Lavora a favore di coloro che non lavorano per se stessi”[7]. In mezzo alle sofferenza, Newman meditava spesso la passione di Gesù e la comprendeva in modo assai profondo: “Le sofferenze di Gesù”, scrisse, “furono le più grandi di tutte, superarono quelle dei martiri, perché la sofferenza è in proporzione della sensibilità mentale dell’anima; l’anima di Cristo sentiva in maniera più forte di quella di qualunque altra persona” (MD, 21-22).
Nel vangelo si legge che una volta Giacomo e Giovanni chiesero a Gesù di sedere nella sua gloria uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Il Signore rispose con una domanda ai due discepoli: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo?” (Mc 10,38). Il Signore rivolge questa domanda anche a noi. Potete bere il calice che io bevo? Potete partecipare alla mia sofferenza? Potete portare con me la croce per la salvezza del mondo? Nella vita di un sacerdote la realtà della croce non può essere assente. Certo, dobbiamo eliminare, per quanto possibile, le croci fatte da noi stessi, dalla nostra imprudenza, dai nostri peccati. Ma le altre croci dobbiamo semplicemente accettare e portare unendoci al Signore. Il Seminario deve essere un luogo dove si impara anche la perseveranza, la fortezza, la pazienza, la capacità di portare la croce – non in una falsa mistificazione della sofferenza, ma in una sana spiritualità e comunione con il Signore crocifisso e risorto. Il grande desiderio di Paolo è “conoscere lui (Cristo), la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11).
6. La chiamata alla santità
L’elevazione alla dignità cardinalizia da parte di Papa Leone XIII nel Concistoro del 15 maggio 1879 fu il più grande riconoscimento di Newman su questa terra. Nell’occasione del ricevimento del “biglietto” per la sua elezione al Cardinalato, egli, guardando alla sua vita passata, disse tra l’altro: “Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli. Non ho nulla dell’alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile ad essere corretto, ho temuto l’errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio”[8]. Queste parole dimostrano l’umiltà e la santità di un vero uomo di Dio.
Una volta quando Newman sentì dire che l’avrebbero chiamato santo, scrisse con una bella porzione di umore: “Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I santi non sono letterati, essi non amano i classici, non scrivono romanzi. Io sono forse alla mia maniera abbastanza buono, ma questo non è alto profilo… Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se San Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe”[9].
Newman lungo tutta la sua vita pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana. Tuttavia dalla sua “prima conversione” la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio che riconosceva come il fulcro centrale della sua vita. Egli non perse più la viva coscienza della presenza di Dio e il profondo rispetto della verità rivelata. Un motto che fece suo in da giovane diceva: “La santità piuttosto che la pace” (A 139).
Nel primo dei famosi Sermoni parrocchiali, dedicato al tema della santità, Newman disse: “Più volte leggiamo che il grande fine cui mirava il Signore nell’assumere la nostra natura fu quello di rendere sante le creature che erano peccatrici… Tutta la storia della redenzione, l’alleanza della misericordia, in ogni suo singolo aspetto e disposizione, attestano la necessità della santità in ordine alla salvezza”[10].
Nelle Meditazioni e preghiere il grande teologo descrive con parole assai semplici la “via breve alla perfezione”, sottolineando l’importanza della fedeltà nei doveri di ogni giorno: “Se voi mi domandate cosa dovete fare per essere perfetti, io vi rispondo: non rimanete a letto dopo l’ora fissata per la levata; rivolgete i vostri primi pensieri a Dio; fate una breve visita a Gesù in sacramento; recitate devotamente l’Angelus; mangiate e bevete per la gloria di Dio; recitate bene la vostra corona del rosario; siete raccolti; cacciate i cattivi pensieri; fate con devozione la vostra meditazione della sera; esaminate ogni giorno la vostra coscienza; giunta l’ora coricatevi e sarete già perfetti” (MD 286).
Una volta un fanciullo voleva mettere in imbarazzo il vecchio Cardinale Newman rivolgendogli la domanda: “Chi è più grande un cardinale o un santo?” Egli rifletté pochi secondi e poi rispose: “I cardinali appartengono a questo mondo, i santi appartengono al cielo”[11]. Newman fu creato Cardinale da Leone XIII, il suo processo di canonizzazione è in corso. Nel 1991 il defunto Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato le sue virtù eroiche. Ora speriamo e preghiamo che ci sia presto il miracolo che manca ancora perché il Santo Padre Benedetto XVI possa procedere alla sua beatificazione.
Newman ha cercato di rispondere con fedeltà alla chiamata alla santità. Per questo motivo ha un influsso tanto grande sulle anime, fino ai nostri giorni. I santi sono come la finestra attraverso la quale la gloria di Dio illumina il mondo. “Come la luce del sole giunge a noi riflessa così i santi di Dio sono gli strumenti attraverso i quali ci arriva la sua gloria” (AW 231). I santi manifestano la gloria di Dio, il vero volto della santa Chiesa e la grande vocazione dell’uomo. Tutti i fedeli, e in modo particolare tutti i sacerdoti, sono chiamati alla santità. Ciò non significa fare cose straordinarie, ma esige il compimento fedele dei doveri ordinari di ogni giorno. Questa fedeltà nelle piccole cose deve essere imparata ed esercitata già nel Seminario, poi sarà anche vissuta nel ministero sacerdotale. Tutta la formazione dei seminaristi ha questo grande scopo: educare i candidati ad una vita di semplicità, di fedeltà, di santità.
Conclusione
Tutti gli aspetti della vita di Newman, che abbiamo meditato e applicato alla formazione sacerdotale, possono essere sintetizzati in una frase: dobbiamo impegnarsi perché Cristo prenda forma nella nostra coscienza. Tutto il periodo di formazione è un processo di conformazione a Cristo: al suo volto divino e umano, alla sua paternità, alla sua luce, alla sua verità, alla sua sofferenza, alla sua santità.
[1] Card. J. Ratzinger, John Henry Newman, uno dei grandi maestri della Chiesa: L’Osservatore Romano, 15 maggio 2005, 6.
[2] J. H. Newman, Apologia pro vita sua (= A), a cura di F. Morrone, Paoline, Milano 2001.
[3] J. H. Newman, Meditations and Devotions (= MD), edited by P. Neville, Christian Classics, Westminster, Md. 1975, 421-422. Propria traduzione.
[4] J. H. Newman, Autobiographical Writings, edited by H. Tristam, Sheed and Ward, London – New York 1956, 201. Propria traduzione.
[5] W. Ward, The Life of John Henry Cardinal Newman, vol. I, Longmans, Green, & Co, London 1912, 52. Propria traduzione.
[6] Ibid., vol. I, 286.
[7] Ibid., vol. II, 129.
8 M. K. Strolz, John Henry Newman. Saggio commemorativo nel Centenario del Cardinalato, Roma 1979, 110.
9 J.H. Newman, The Letters and Diaries, vol. XIII, ed. by the Birmingham Oratory, Thomas Nelson and Sons Ltd, London 1963, 419. Propria traduzione.
[10] J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. I, Christian Classics, Westminster, Md. 1966, 1. Propria traduzione.
11 L. Bouyer, Newman. His Life and Spirituality, Burns & Oates, London 1958, 387.