Lo stato dell’innocenza

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IL NATALE

Lo stato dei nostri progenitori che, quando usci­rono dalle mani di Dio, erano « semplici », « molto buoni », sollecita la nostra attenzione e la nostra simpatia, sebbene noi, loro discendenti, siamo molto cambiati. Da allora la nostra natura è passata attra­verso molte avventure, ha conosciuto grandi mali e beni ancora maggiori. Lo stato primitivo non ci ap­partiene più. Non ci appartiene, sebbene nessuno ora ce ne impedisca il possesso. Le penalità sono state rimosse, la spada di fuoco non custodisce più l’entrata dell’Eden; tuttavia non vi siamo più tor­nati. Accade sempre così: il passato non ritorna mai, né in se stesso, né nel suo contenuto. Ogni tempo ha le sue caratteristiche particolari che portiamo impresse nella nostra memoria. Quando, di tempo in tempo, questo o quel fatto.

Stando così le cose, ci potrebbe sembrare di ben poco interesse la condizione originaria di Adamo. Sentiamo dolore e rimorso per averla perduta, ma quel che abbiamo ritrovato è qualcosa di diverso. Inoltre, sebbene Dio Onnipotente non ci ridoni il passato, i suoi doni hanno un movimento uguale ed uniforme, sono come dei cerchi che si allargano da un centro; il bene più grande che ci viene dato ora non è lo stesso né uguale all’antico, ma nondi­meno gli rassomiglia, come la realtà somiglia al suo tipo. Nel passato vediamo, come in miniatura e a grandi linee, il futuro. E come può essere altrimenti? Infatti tutti i beni sono tipi e riflessi di Dio stesso, e si somigliano l’un l’altro perché somigliano a lui.

Così il giardino dell’Eden, sebbene passato da molto tempo, è sempre di nuovo posto davanti al no­stro sguardo dal progredire continuo dei disegni di Dio verso di noi, non solo perché ci sia di ammae­stramento, ma perché i benefici di Dio sono somi­glianti, ed in tutti v’è una medesima costante: da Adamo alla Legge, dalla Legge al Vangelo, dal Van­gelo al Regno escatologico. Ad esempio, la terra ove scorrevano latte e miele era quasi un’immagine del paradiso perduto, ed in un certo modo aboliva la sentenza con la quale Dio aveva condannato i nostri progenitori. Inoltre il regno di Cristo è preannun­ciato come il tempo nel quale le bestie ritornano sotto il dominio dell’uomo e sono innocue, un tempo nel quale il serpente non è più velenoso, « il de­serto e la terra gioiranno, esulterà la steppa e fio­rirà » ( Is. 35, 1 ) ; « al posto dei roveti crescerà il cipresso, al posto delle ortiche verdeggerà il mirto » (Is. 5, 13); e «monti e colline vi acclameranno, e tutti gli alberi dei campi vi applaudiranno » (Is. 55, 12).

Tale è anche lo stato intermedio. Gesù dice al ladrone pentito: « Oggi sarai con me in paradiso ». Ed alla fine dell’Apocalisse, le ultime parole che Dio pronunzia ci pongono davanti l’immagine del para­diso terrestre: « Poi l’angelo mi mostrò un fiume d’acqua di vita, limpida come cristallo, che scatu­riva dal trono di Dio e dell’agnello. In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume sta un boschetto di alberi della vita, che fruttificano dodici volte l’anno, una volta al mese. Le foglie degli al­beri servono a guarire le nazioni » (Apoc. 2, 2).

Così Dio ha tolto il meno per dare il più, non ha fatto tornare il passato, ma l’ha riscattato e in­grandito; ne ha preservato il modello affinché non lo dimenticassimo.

Possiamo perciò guardare al giardino dell’Eden come alla nostra infanzia. Questa infanzia è un tipo del perfetto stato cristiano. Nostro Signore la rese tale quando disse che dobbiamo diventare piccoli fanciulli per entrare nel regno dei cieli. Tuttavia questo stato è passato. Noi non siamo e non pos­siamo essere dei bambini; ormai siamo uomini, con le nostre passioni e facoltà, coi nostri desideri, prin­cipi, modi di vedere, con dei doveri… Tuttavia dob­biamo essere come bambini. Dobbiamo vedere in essi la perfezione cristiana, e tenerli davanti agli occhi nel nostro impegno di vita cristiana.

Invero fra lo stato di Adamo nel paradiso terrestre ed il nostro nella fanciullezza vi è una connes­sione molto maggiore di quel che non sembri a prima vista; tale che contemplando l’Eden, gettiamo uno sguardo anche sulla nostra fanciullezza; e sfor­zandoci di diventare bambini, ci sforziamo di diven­tare come Adamo prima della colpa. Mettiamo un po’ a confronto queste due condizioni, e contem­poraneamente teniamo sptt’occhio la condizione ul­tima, che è più alta delle due precedenti, cioè la nostra condizione di rigenerati in Cristo, della quale tutte due le altre sono tipo. Per quel che posso com­prendere vi è una connessione molto misteriosa e reale fra il giardino dell’Eden e la nostra infanzia, sulla quale non voglio tuttavia diffondermi. Inoltre il peccato originale lega insieme, in modo miste­rioso ed incomprensibile, Adamo con ciascuno di noi.

Se, come crediamo, il peccato di Adamo è impu­tato ad ognuno di noi, se è dentro di noi quando veniamo alla luce, con tutte le sue conseguenze, come se fosse commesso da noi, certamente non possiamo essere nello stato paradisiaco di Adamo. Si può tut­tavia affermare che la nostra infanzia è una continua­zione dello stato edenico di Adamo, un condurre questo stato attraverso ed oltre la colpa di Adamo (parlando in questo modo però usiamo le parole oltre il loro significato).

Ma lasciamo da parte questo argomento. Vorrei farvi notare che, per quanto ci è dato conoscere, lo stato di Adamo nell’Eden sembra aver molto in comune con lo stato dei bambini. Egli infatti era semplice, non artificiale, senza esperienza del male, alieno da ragionamenti e calcoli, inconsapevole del futuro, e, come si dice oggi, « inintellettuale ». L’al­bero della conoscenza del bene e del male era tenuto lontano da lui. Inoltre, come non possiamo diven­tare semplici fanciulli finché conosciamo il bene e il male, così ci è promesso che nel paradiso nel quale entreremo non ci sarà l’albero della conoscenza. S. Giovanni, descrivendo il paradiso futuro, dice che vi sarà l’albero della vita, ma che non ci sarà l’albero della conoscenza. Al suo posto vi sarà la « gloria di Dio che illumina, e il luminare è l’agnel­lo » (Apoc. 21, 23).

Osservando la natura umana nella sua situazione originaria, nell’infanzia (che è tipo della sua perfe­zione), e, per quanto ci è dato conoscere, nel suo stato futuro, potrebbe sembrare che in tutte queste condizioni non vi è la conoscenza del bene e del male, quale che sia il significato di questa frase, e che invece di tale conoscenza vi è il Signore e la sua luce, e che noi « nella sua luce saremo illumi­nati ». Tutto questo ha una notevole connessione con il testo: « Dio ha fatto l’uomo semplice: sono essi che vanno in cerca di tanti e tanti perché » (Eccli. 7, 29).

Ma torniamo ai nostri progenitori. Lo stato del­l’Eden somiglia molto al modo di vivere degli inno­centi, che sono condannati e derisi dagli uomini d’oggi, degenerati discendenti di Adamo e di Eva.

Adamo ed Eva furono posti nel giardino per col­tivarlo: « Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custo­disse » (Gen. 2, 15).

Se vi era un modo di vivere libero da ogni tu­multo, ansietà o eccitazione, era quello di aver cura del giardino. Mi direte che non poteva essere diver­samente finché Adamo era solo nel mondo intero. Il moltiplicarsi degli esseri umani, la mutua azione e comunicazione hanno dato origine alla preoccupa­zione ed alla varietà della vita. Adamo, volente o no, era un eremita. E’ vero; ma il fatto che Dio lo abbia creato tale, non sta forse ad indicare quale sarebbe la nostra vera felicità se ci fosse concesso di essere quel che non siamo? Vediamo il tipo della perfezione in questi primi individui della nostra spe­cie, che non dovevano necessariamente essere creati soli, a meno che tale non fosse stata la volontà di Dio, e che avrebbero potuto essere invece moltitu­dini immense come gli angeli.

Si noti anche che, quando venne il secondo Ada­mo, ritornò, e con maggiore pienezza, al tipo di vita che ci era stata destinata al principio – anche lui, l’immacolato Figlio di una madre vergine, era solo e viveva solo; e scelse come sua casa la sommità della montagna o i campi -. C’è però una diffe­renza: Cristo, nella solitudine, soffri pene ed ansietà. Adamo mangiava liberamente di tutti gli alberi, ad eccezione di uno, Cristo digiunò quaranta giorni nel deserto; Cristo non fu tentato a mangiare una spe­cie di cibo, ma fu spinto, nell’assoluta mancanza di cibo, a provvedersi del pane; non fu come un re che impone il nome alle bestie obbedienti, ma come un uomo che vive fra animali selvaggi senza un valido aiuto che lo sostenga, e che prega, solo, nella notte; non si veste di erbe e di fiori, ma suda sangue nel­l’ agonia; non si addormenta profondamente nel suo giardino, ma vi è sepolto dopo la sua morte. Tut­tavia è solo, come il primo Adamo, e come il primo Adamo vive in unione con il suo Dio e con gli an­geli santi. E questo è più notevole, sia perché egli venne a compiere una grande opera in un breve ministero, sia perché tale caratteristica si trova an­che nei suoi servi più operosi e più attivamente impegnati, che vissero prima e dopo la sua venuta.

Abramo, Isacco e Giacobbe erano uomini sem­plici, che vivevano nelle tende; Mosè visse per qua­rant’anni la vita del pastore, e quando infine fu posto a capo del popolo eletto, in uno dei momenti più critici del governo, si ritirò a lungo, da solo, con Dio sul Monte. Samuele fu portato nel tempio, Elia visse nel deserto, e così il suo antitipo, Gio­vanni Battista. Anche gli apostoli ebbero i loro pe­riodi di solitudine. Sentiamo parlare di S. Pietro a loppe; il lavoro apostolico di Paolo era continua­mente interrotto a causa di prigionie (pare quasi che queste occasionali sospensioni dall’attività fos­sero necessarie per il corpo e per lo spirito). Se la vita di Cristo e dei suoi servi è per noi una guida, è chiaro che la semplicità ed un periodico ritirarsi dall’attività, con la quale è intessuta la vita umana, sono segni della sua perfezione. Inoltre, non ci dà lo stesso insegnamento la nostra infanzia, che è un tempo speciale nel quale l’anima è sola con se stessa, separata dai suoi simili, come se fosse l’unico essere umano sulla terra? Adamo stesso, nel suo giardino, non era separato dal mondo e visitato dagli angeli?

Sì, separato dal mondo ed anche da se stesso. Per quanto sia strano, anche lo stato della nostra infan­zia ci è nascosto, e non possiamo richiamarlo alla memoria. Non sappiamo com’era, quali erano i no­stri pensieri, quale la nostra prova, come non lo sapeva Adamo.

Questa analogia è molto significativa per quanti mettono in questione e muovono obiezioni al rac­conto dei nostri progenitori nell’Eden. La loro diffi­coltà più grande consiste nel fatto che essi non cono­scono quale era il loro stato, e che vi è, nella parola di Dio, una profondità ed un segreto che non pos­sono penetrare. Ma questo segreto è forse più grande di quello che ognuno porta nella propria persona, del grande mistero della propria infanzia? Se la storia della nostra infanzia si potesse scrivere, essa, per i nostri occhi, sarebbe tanto strana e così poco nostra all’apparenza, come la storia che ci è raccontata nel secondo e nel terzo capitolo della Genesi. Abbiamo qui ancora un parallelo col nostro stato di perfezione; noi non sappiamo « come saremo ». Non sappiamo dove andiamo più di quanto sappiamo donde siamo venuti. S. Paolo fu una volta rapito in paradiso, e fu testimone dell’incomprensibile natura di quella vita che era iniziata e che fu spezzata nel­l’Eden: « Conosco un uomo che fu rapito in para­diso, ed udì parole indicibili, che non è dato all’uomo di proferire » (2 Cor. 12, 3-4).

Tutto questo ha un’analogia con lo stato di rige­nerazione nel mondo presente; nella misura in cui uno avanza nella vita divina, è egli stesso un se­greto e vede cose nascoste agli altri uomini. « La luce rifulse nelle tenebre, e le tenebre non la com­presero » (Gv. 1, 5). «Il mondo non ci conosce, perché non conosce Lui » ( 1 Gv. 3,1).

D’altra parte « il segreto del Signore è con coloro che lo temono» (Sai. 25, 14). «Colui che crede nel Figlio dell’uomo ha la testimonianza in se stes­so » (1 Gv. 5, 10). « A colui che vincerà darò una pietra bianca; e sulla pietra scriverò un nome nuo­vo, che nessuno conosce, se non colui che la riceve » (Apoc. 2, 17).

Un’altra somiglianza fra lo stato di Adamo in pa­radiso e quello dei fanciulli è questa: i bambini sono salvati non per i loro propositi o per l’abitudine all’obbedienza, non dalla fede o dalle opere, ma dalla grazia battesimale. Così fu anche per Adamo: « Dio soffiò in lui lo spirito della vita, e l’uomo divenne una persona vivente » ( Gen. 2,7).

Molto diverso è il nostro stato dopo il peccato: al presente la rettitudine morale si acquista solo con l’esercizio e la disciplina, attraverso la sofferenza, in uno sforzo continuo per migliorare. Noi avanziamo nella verità passando per l’errore, procediamo nel nostro cammino superando gli ostacoli. Troviamo la giusta via solo dopo avere imboccato strade sbaglia­te. Diciamo: « stat in medio virtus », indicando con questo che la virtù si trova circondata dal male e dall’errore. Non conosciamo il bene positivamente, ma negativamente. Non vediamo all’improvviso la verità, né all’improvviso ci conformiamo ad essa; ma sperimentiamo l’errore, vi cadiamo, e ci accorgiamo che non è la verità. Non la scopriamo con gli occhi, ma toccandola, venendone a contatto. Per mezzo di una miserabile esperienza esauriamo tutti i modi pos­sibili di agire, finché non rimane altro che la verità. Tale è il processo che seguiamo. Andiamo verso il cielo a ritroso; scagliamo i nostri dardi ad un bersa­glio, e lo giudichiamo centrato quando la deviazione è minore.

Non è questa la situazione dei bambini morti dopo il battesimo. Non era questo lo stato di Adamo, quando era ancora semplice, come Dio lo aveva creato. Adamo avrebbe probabilmente potuto avan­zare nella santità se fosse rimasto nello stato primi­tivo, senza esperienza del male, del dolore e dell’er­rore, perché aveva dentro di sé qualcosa che è supe­riore all’abitudine che la disciplina e l’esercizio for­mano penosamente in noi. Se non è presunzione, oserei dire che la grazia in lui teneva il posto del­l’abitudine; la grazia lo rivestiva al di dentro e al di fuori. Lo dispensava dallo sforzo per tendere alla santità, perché la santità viveva in lui. Con la parola « abitudine » vogliamo intendere uno stato o una qualità della mente che ci spinge ad agire in questo o quel modo; è un potere permanente della mente. E cos’è la grazia se non questo? Quel che gli uo­mini caduti acquistano a forza di esercizio, con la ripetizione di atti religiosi, Adamo già lo possedeva. Egli aveva dentro di sé questa luce che poteva rendere più risplendente con l’obbedienza, ma che non doveva creare da se stesso; finché non cadde nella colpa, non perdette questo dono soprannaturale che lo sollevava al di sopra di se stesso e che, in un certo senso, lo rendeva superiore all’uomo, simile agli angeli e ai santi. Egli perse questa veste di santità e di innocenza quando disobbedì a Dio; se ne accorse, e confessò di averla perduta; ma per tutto il tempo che la possedette, fu senza peccato, perfetto ed accetto a Dio, pur non avendo subito prove o sofferenze per acquistarla.

Adamo si stancò, non si contentò di avere un cuore puro; volle scoprirne la ragione. Desiderò ob­bedire non al modo dei bambini, ma come colui che fa da sé le proprie scelte. Mangiò del frutto proibito per poter scegliere ad occhi aperti fra il bene e il male, i suoi occhi si aprirono, « e si accorse di essere nudo ». La forza della gloria interiore di Dio se ne andò da lui, e da allora Adamo dovette com­battere per scegliere l’obbedienza, come meglio po­teva nel suo stato decaduto, per l’esperienza del pec­cato e della miseria.

Bisogna inoltre notare che il dono che santificava Adamo e che salva i bambini diventa il principio regolatore dei cristiani quando avanzano nella per­fezione. Più diventano stabili le abitudini alla virtù, più diventano inutili la ragione ed il controllo di sé; al loro posto subentra nell’animo un istinto spiri­tuale, o, piuttosto, vi regna sovrano lo Spirito. Non vi è calcolo, lotta, sforzo per dominarsi, investiga­zione dei motivi. Noi agiamo per amore. Per questo l’apostolo Giovanni dice: « Voi avete l’unzione dello Spirito Santo e conoscete ogni cosa » ( 1 Gv. 2, 20 ). E S. Paolo: « Noi siamo tempi del Dio vivente, come disse Iddio: – Abiterò fra loro e con loro cammi­nerò – » (2 Cor. 6, 16).

Ora, se è vera la dottrina sulla quale si fonda questo parallelo, cosa di cui nessuno può dubitare, quanto è miserabile quello stato, tanto spesso magni­ficato ed esaltato come la perfezione della nostra natura, che presenta come un bene la conoscenza del peccato, mentre la conoscenza del male è la più grande calamità che mai si sia abbattuta su di noi. Certamente molti se ne gloriano, e si gloriano così della propria vergogna, e pensano di avanzare nell’eccellenza della vita morale, mentre invece non acquistano che la conoscenza del male morale.

Molti credono sia cosa disprezzabile e da schiavi camminare nel modo semplice ed ingenuo dei bam­bini, senza esperienza del mondo. E’ una via inge­nua, e perciò stesso ai loro occhi disprezzabile. Si scandalizzano per i limiti imposti al palato dei no­stri progenitori, e desiderano agire e giudicare da se stessi. Pensano cosa virile provare i piaceri del peccato, e conoscere il peccato prima di condannarlo. Credono di giudicare meglio quando non si fanno guidare ciecamente dagli altri, ma si caricano sulle loro spalle il giogo del peccato. Si reputano grandi quando maledicono, spergiurano, si danno ai diverti­menti, quando ridicolizzano la verità di Dio e si professano discepoli di satana. Costoro disprezzano gli innocenti, le donne, i bambini, gli eremiti, i santi e gli umili di cuore che vedono Dio e l’adorano come i serafini. Pensano che non è un gran danno lasciar la retta via per un certo periodo, purché alla fine vi si ritorni.

Credono perfino che è più gradito a Dio supe­rare il male con un « servizio ragionevole » che se­guire senz’altro il bene. Ritengono che sottomettere i « movimenti del peccato » e mostrare sopra di esso il proprio potere è cosa più grande che il non dover combatterlo affatto. Pensano sia più nobile avere un nemico da superare e dei ribelli da control­lare che essere in pace.

Ahimé! Costoro, generalmente, non sanno che vi è un potere di ribellione dentro di essi, chiamano il peccato un male solo veniale, e non si meravi­gliano di sperimentarlo; non possono comprendere che è cosa migliore l’essere sempre puri che l’essere stati, un tempo, macchiati.

E’ certo miserabile il guadagno, che ci siam pro­curati con la caduta, di conoscere il peccato per espe­rienza; ora non lo guardiamo più con terrore come gli angeli o i fanciulli i quali si meravigliano come vi possano essere nel mondo uomini perversi; ma lo introduciamo nel nostro cuore. Ahimé! Sempre, dal tempo della caduta, il vivere in peccato è lo stato più o meno naturale dell’uomo; e sebbene qua e là, sotto l’azione segreta della grazia, egli abbia giudi­cato secondo Dio e gli abbia obbedito, ciò è acca­duto in maniera lenta e contrastata. Tale è anche lo stile ordinario che segue la Provvidenza nel fare avanzare la verità. Non inonda all’improvviso di luce la Chiesa, ma oppone un male ad un altro, e pro­cura che un serpente ne uccida un altro, che il meno distrugga il più; diminuisce così gradualmente il cumulo dei mali, che si annientano l’un l’altro per la loro stessa contrarietà. Ed è certamente in questo modo che dobbiamo guardare le sètte e le eresie, come testimoni cioè di particolari verità, e come mezzi di Dio per distruggere il male, e tuttavia come causa di morte l’una all’altra, per la loro stessa avidità.

La menzione dell’eresia e dell’errore ci apre un largo campo sul quale voglio soffermarmi: il com­pito della ragione.

I fanciulli non avanzano con il ragionamento. Adamo, nel suo stato di innocenza, conduceva un’esis-tenza semplice e tranquilla. Noi attribuiamo a Dio l’eccellenza morale, la verità, la fedeltà, la giustizia, l’amore, la santità; parliamo inoltre del suo potere, della sua sapienza e saggezza; ma sarebbe profano magnificare il suo grande nome mettendolo in rela­zione con quello che chiamiamo astuzia, e a cui an­nettiamo un grande valore. Cristo non dispiega l’elo­quenza, i sottili ragionamenti, la brillante esposi­zione, la fecondità di pensiero che il mondo tanto ammira. No, e lo stesso è vero per quel che riguarda il nostro stato di rigenerati. Senza dubbio l’intelli­genza trova il suo impiego nella Chiesa; tuttavia la fede è la realtà suprema, e la ragione conserva il suo ruolo solo quando vi è subordinata. « Beati co­loro, dice il Signore, che non hanno veduto, eppure hanno creduto » (Gv, 20, 29); e Paolo: « I Giudei chiedono un segno, ed i Greci cercano la sapienza; ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i Giudei e follia per i pagani » ( 1 Cor. 1, 22-24 ).

Quanto è in contrasto con queste parole un sem­plice catalogo delle doti dell’intelligenza, che aiutano l’uomo ad aver successo nella vita e che regolano la struttura della società! Esaminiamo il mondo quale ci si presenta, con il suo modo di ragionare, con il suo agitarsi, i suoi sforzi febbrili, i suoi impegni, i suoi risultati, l’incessante fluire e rifluire della grande corrente del pensiero.

Osserviamo la società, non nei suoi mali acciden­tali, ma nelle sue caratteristiche essenziali: che altro è tutta la sua energia intellettuale, se non un frutto della conoscenza del bene e del male, e, per quanto non peccaminosa in se stessa, frutto tuttavia del peccato? Considerate le sue attività, i suoi commerci, i suoi fini, le sue « invenzioni »: da cosa sono ori­ginate se non dalla perdita della semplicità originale? Qual posto hanno le sue speculazioni, i suoi splendori, le sue teorie, in quella terra felice che fu la nostra culla, o nel paradiso verso il quale tendiamo? Cosa sono l’astuzia, l’abilità, la presenza di spirito, la sagacia, la perspicacia, la capacità di persuadere, il talento per gli affari, se non sviluppi dell’intelletto, occasionati dalla nostra caduta, che sono probabil­mente ben lungi dal rappresentare quanto c’è di me­glio nelle possibilità della nostra mente?

Non ho alcuna intenzione di disprezzare la ra­gione, che è un dono di Dio e che distingue l’uomo dagli animali; ho solo mostrato le sue caratteristiche ed il ruolo che essa svolge nel mondo. Gli sviluppi della ragione, quantunque siano una cosa eccellente ed ammirabile, non vi sono stati che a causa del peccato, e, al loro stato attuale, servono i fini del peccato. La ragione è un dono di Dio, e così pure sono dono di Dio le passioni. Adamo ebbe il dono della ragione ed ebbe le passioni; ma egli non cam­minò secondo la ragione e non dominò le passioni; egli, o Eva, se preferite, fu tentato a seguire la passione e la ragione, invece del suo Creatore, e cadde. Da allora la ragione e la passione persero il loro posto nella natura dell’uomo, che è un posto subordinato, e cospirarono insieme contro la luce divina che è in lui. La ragione è caduta nella colpa come la passione. Dio fece l’uomo semplice, e la grazia era la sua forza; ma egli si è fatto molte inven­zioni, e la sua forza è la ragione.

Per concludere: per quanto siano grandi i doni di intelligenza che Dio ci ha dati, impariamo a sot­tometterli, d’ora in avanti, all’innocenza, alla sempli­cità e alla verità. Facciamo in modo che il nostro essere sia plasmato dalla fede, dall’amore, dalla con­templazione, dalla modestia, dalla dolcezza, dal­l’umiltà.

So bene che gli uomini differiscono talmente l’uno dall’altro che sarebbe follia sperare di veder manife­starsi in loro un carattere unico ed uguale per tutti. Così un uomo mostra gentilezza, semplicità, umiltà, ed i suoi doni intellettuali sono nascosti dentro di lui. Osservandolo dall’esterno non siamo in grado di comprendere come abbia in sé quelle doti che pur sappiamo egli possiede.

Le capacità di un altro sono sepolte, o quasi; un altro ancora sovrabbonda di pensiero, è un ot­timo parlatore, ha un’acuta visione del mondo, ed è sempre presente e preparato in tutto; tuttavia na­sconde in se stesso umiltà e serietà di vita.

Queste però sono cose marginali: « il Signore non vede come l’uomo, perché l’uomo giudica secondo le apparenze, ma Dio scruta i cuori » ( 1 Sam. 16, 7).

Cerchiamo di essere graditi a Cristo. Anche se vi­viamo fra la folla, dobbiamo essere come eremiti nel deserto; se siamo ricchi, dobbiamo essere come po­veri, se sposati, come se fossimo soli, se intelligenti, come piccoli bambini. Il tumulto dell’errore ci inse­gni la semplicità della verità; le miserie del peccato, la pace dell’innocenza; le « molte invenzioni » della ragione, la stabilità della fede. Siamo, come S. Paolo, « tutto a tutti », mentre « viviamo in Dio »; « astuti come serpenti e candidi come colombe »; « bambini nella malizia, uomini nell’intelligenza ».

John Herny Newman, Parochial and Plaìn sermons, vol. V, pp. 99-115