Newman e la questione della Chiesa

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Sr. Kathleen Marie Dietz
Nell’Apologia pro vita sua Newman scrive che la sua conversione dalla Comunione anglicana alla Chiesa cattolica fu “come entrare in porto dopo essere stati nel mare in burrasca”1 . Vorremmo riflettere un po’ su questa scena e aggiungervi un’altra immagine, quella del faro, che aiutò Newman a trovare il porto. Cercheremo di esplorare le ragioni per cui le acque del mare si agitarono e di porre la questione che Newman dovette affrontare per arrivare al porto. Per dirla in breve, si tratta della questione della Chiesa. Che specie di luce fu quella che guidò Newman al porto della Chiesa cattolica attraverso i flutti di un mare in burrasca? Quel faro fu la divina Provvidenza.
Leggendo le opere di Newman, si resta meravigliati dell’uso frequente dell’idea della divina Provvidenza che costituisce quasi la pietra angolare della sua teologia. Quando osserviamo gli scritti di Newman con un occhio rivolto alla divina Provvidenza e alla Chiesa, troviamo che egli parla della divina Provvidenza in quanto prepara la strada alla Rivelazione e alla Chiesa su due fronti, pagano e giudaico; egli parla della divina Provvidenza in quanto dona la Rivelazione e la Chiesa e poi parla della divina Provvidenza in quanto preserva la Rivelazione dentro e tramite la Chiesa. Noi metteremo in luce quest’ultimo aspetto, dando per scontati gli altri due. Vedremo che Newman non sempre intese che la Rivelazione fosse preservata dentro e tramite la Chiesa e che proprio questo era per lui il punto da esaminare. Spiegheremo come arrivò a quella comprensione e come ne fu influenzato nell’abbracciare la Chiesa cattolica.

1. La questione si pone

E’ stato attraverso il contatto con gli altri professori dell’Oriel College e l’esperienza pastorale nella parrocchia di san Clemente che Newman ha gradualmente abbandonato la maniera calvinista di pensare, assimilata nelle sue letture al tempo della prima conversione nel 1816. Newman era stato eletto fellow dell’Oriel College a Oxford nel 1822 ed era entrato nei ranghi di personaggi come Edward Hawkins, Richard Whately e John Keble, a cui più tardi si unirono anche Richard Hurrell Froude e Edward Bouverie Pusey. I membri di quella presti- giosa comunità accademica non appartenevano né alla High Church né alla Low Church, ma a una nuova scuola, caratterizzata da uno spirito di moderazione e di comprensione.

Nel confronto con i summenzionati personaggi, Newman cominciò a sviluppare la propria visione della Chiesa come un oracolo visibile di verità, indipendente dallo Stato, con i propri diritti, prerogative e poteri. Comprese l’importanza della successione apostolica, il carattere storico della Rivelazione e la valenza della Tradizione. Queste ultime conquiste, aggiunte al principio dogmatico, perdurante eredità della sua prima conversione, servirono a consolidare in lui un’idea di Chiesa. Da quel momento in poi le lotte di Newman con le sue opinioni religiose ebbero sempre a che fare con la sua comprensione della Chiesa.

Nel luglio del 1832 Newman portò a termine la sua prima grande opera, Gli ariani del quarto secolo. Nel corso della composizione di tale saggio era pervenuto ad amare e venerare i Padri della Chiesa. Dietro campioni della Chiesa come i santi Atanasio e Ambrogio, Basilio e Gregorio scorse la mano sicura della Provvidenza. Mise a confronto la loro Chiesa con la sua Chiesa ufficiale d’Inghilterra.

Alla Chiesa anglicana, così divisa e minacciata, così inconsapevole della sua vera forza, io paragonavo quella potenza fresca e vigorosa che avevo riscontrato nella Chiesa dei primi secoli. Nel suo zelo trionfante per quel mistero fontale verso il quale fin dalla giovinezza avevo nutrito tanta devozione, riconoscevo l’andatura della mia madre spirituale. … Sentivo affetto per la mia Chiesa, ma non tenerezza; …Quanto ad abbandonarla, l’idea non mi passò mai per la mente; ero però sempre consapevole che esisteva qualcosa di più grande della Chiesa ufficiale e cioè la Chiesa cattolica e apostolica, fondata fin dall’inizio, della quale quella non era altro che la rappresentanza locale e lo strumento: se non fosse questo non sarebbe nulla. (Apo, p. 168)

Newman tornò in Inghilterra nel luglio 1833, dopo un viaggio nel Mediterraneo, attirato da uno scopo, con un forte presentimento di avere “un lavoro da fare in Inghilterra” (Apo, p. 172). Appena alcuni giorni dopo il suo ritorno, John Keble pronunziò al pulpito dell’università il famoso discorso intitolato Apostasia nazionale. Newman scrisse: “Ho sempre considerato e ricordato quel giorno come l’inizio del movimento religioso del 1833” (Apo, p. 173). Quel movimento religioso, che in seguito fu conosciuto come Movimento di Oxford, ebbe come precipuo obiettivo la salvezza della Chiesa anglicana dal liberalismo del giorno, quel liberalismo che era antidogmatico per principio.

Nella sua Apologia Newman, sentendosi fondatore del Movimento di Oxford, parla del suo proposito come di una promozione di tre proposizioni: 1) il principio dogmatico secondo il quale il dogma è il fondamento della religione; 2) “la verità di una certa precisa dottrina religiosa, basata su questo fondamento dogmatico: cioè, che esisteva una Chiesa visibile, con sacramenti e riti che sono i canali della grazia invisibile” (Apo, p. 188); 3) l’idea “che allora avevo della Chiesa di Roma” (Apo, p. 191), come era solito chiamare la Chiesa cattolica fino alla sua conversione.

Newman riteneva le prime due pro- posizioni i principi fondamentali di ecclesialità, che diventavano, insieme ai quattro attributi dell’unità, della santità, della cattolicità e dell’apostolicità, il metro con cui misurava la Chiesa anglicana e quella di Roma. Questi principi ed attributi erano le costituenti necessarie e immutabili e le caratteristiche della Chiesa fondata da Cristo per mezzo degli Apostoli. La vera Chiesa deve avere queste caratteristiche, da queste può essere riconosciuta.

La terza proposizione in cui Newman confidava all’inizio del Movimento di Oxford è la sola che più tardi “completamente abbandonò e calpestò” (Apo, p. 191). Quella proposizione era il suo antiromanesimo. Sarà questa proposizione sulla quale ci fermeremo per il resto della nostra trattazione perché, evidentemente, è qui che possiamo seguire l’evoluzione del pensiero di Newman.

Dalla lettura dell’opera sulle Profezie di Newton nel 1816, Newman giunse a vedere nel Papa l’Anticristo predetto da Daniele, san Giovanni e san Paolo. Sebbene sotto l’influsso del suo caro amico Hurrell Froude le sue vedute furono attenuate, questa percezione della Chiesa di Roma rimase con lui “come una macchia sulla mia immaginazione” (Apo, p. 261) persino dopo averla abbandonata nel suo ragionamento. La macchia fu definitivamente cancellata solo intorno al 1843.

Durante il Movimento di Oxford, il problema cruciale di Newman con la Chiesa romana erano “gli onori che essa tributava alla Beata Vergine e ai santi” (Apo, p. 192). Ciò non deve essere inteso come un mero pregiudizio. Questo era un problema fondamentale che per Newman significava più che delle semplici pratiche devozionali. Secondo lui, si trattava di verità aggiunte al Credo e quindi la Chiesa di Roma non era più la Chiesa primitiva. Nonostante il suo affetto per la Chiesa di Roma, egli sottolineava “l’ammonimento di Mosè contro un maestro, fosse anche fornito di doni divini, che predicasse nuovi dei” e “l’anatema di san Paolo persino contro angeli ed apostoli che volessero introdurre una nuova dottrina” (Apo, p. 193).

Newman, allora, protestò contro la Chiesa di Roma come se fosse un dovere di coscienza. Tuttavia lo fece anche perché “l’obbligo di una tale protesta era un principio vivo nella mia propria Chiesa” (Apo, p. 194). Egli si riferiva ai grandi maestri anglicani che avevano formulato gli stessi principi di ecclesialità e avevano prodotto lo stesso giudizio contro Roma. Newman era sicuro che esisteva un profondo abisso tra l’anglicanesimo e Roma e che l’esposizione delle carenze nel sistema anglicano non avrebbe mai potuto condurre a Roma: “Nello stesso accordo tra le due forme di fede, per quanto stretto potesse sembrare, in realtà, dopo un attento esame, si sarebbero trovati gli elementi e i principi di un disaccordo sostanziale” (Apo, p. 195). Era a causa della sua certezza riguardo alla sua posizione di fronte a Roma che Newman pensò anche che non ci sarebbe stata imprudenza “nel presentare al pubblico nel modo più completo la dottrina e gli scritti dei Padri” (Apo, p. 195). Pensava che la Chiesa anglicana fosse basata su di essi.

Vediamo così i due principali rilievi, uno positivo l’altro negativo, dei suoi pensieri e studi negli anni tra l’inizio del Movimento di Oxford e la sua conversione, cioè i Padri e l’antiromanesimo. Interessante è da notare che questi due principali rilievi sono esattamente quelli che Newman acquisì dalle sue letture nell’autunno del 1816, al tempo della sua prima conversione, i quali impiantarono in lui “i germi di una inconsistenza intellettuale che per lunghi anni mi paralizzò” (Apo, p. 140). Nella misura in cui aumentò la conoscenza e l’amore per i Padri e i loro scritti, nella stessa misura diminuì anche il suo antiromanesimo, fino alla totale scomparsa. Il cuore di Newman era attirato verso Roma molto tempo prima di aver avuto la convinzione intellettuale che essa è la vera Chiesa, ma per Newman era necessaria la certezza prima di fare il passo.

Mi sembrava allora – e mi è sempre sembrato – che vi fosse una viltà intellettuale nel non trovare una base razionale per la mia fede, e una viltà morale, se non avessi ammesso pubblicamente questa base. … Ahimé! È stata la mia sorte restare per anni senza una base soddisfacente per la mia professione religiosa, in uno stato di infermità morale, incapace di rassegnarmi nell’anglicanesimo, né capace di passare a Roma. Ma l’ho sopportato, finché non venne il momento in cui la strada mi si fece chiara. (Apo, p. 206)

Questo fu il tempo della crisi, il tempo da cui Newman poté uscire obbedendo alla voce della divina Provvidenza.

Il Movimento di Oxford ebbe inizio contro il liberalismo del giorno, e si era difeso contro l’accusa di “papismo” attaccando Roma, ma non poteva sostenersi restando sul negativo; era necessaria una teoria positiva sulla Chiesa. Newman fece ricorso ai grandi maestri anglicani e su quella base cercò di produrre un sistema teologico dell’idea anglicana. Nacque in tal modo la cosiddetta Via media, costruita su tre proposizioni fondamentali di cui abbiamo già parlato: dogma, principio sacramentale e antiromanesimo. Il problema era: avrebbe funzionato? Era una buona teoria sulla carta, ma aveva una vita in sé stessa? Nel corso degli anni seguenti Newman cercò di rafforzare la teoria della Via media e condensò il lavoro dei primi sei anni del Movimento di Oxford con queste parole:

Desideravo suscitare una Chiesa d’Inghilterra viva, in una forma concreta, con una posizione propria e basata su principi ben determinati, per quanto parole stampate potevano farlo, per quanto una predicazione zelante e l’influsso esercitato sugli altri verso questa direzione potevano farne una realtà – una Chiesa viva, fatta di carne e sangue, con voce, aspetto, movimenti e azioni, e una volontà propria. (Apo, p. 212)

Il lavoro del Movimento di Oxford non fu immune da riflessi nella Chiesa anglicana. All’inizio ci furono grida di “papismo” dalla controparte evangelica; quanto più i principi cattolici erano esposti, tanto più grande era il tumulto nella Chiesa anglicana. Una “collisione con la Nazione e con quella Chiesa della Nazione al cui servizio aveva, agli inizi, dichiarato di porsi” (Apo, p. 216) era inevitabile.

L’occasione della collisione fu la pubblicazione di quello che poi si rivelò l’ultimo dei cosiddetti trattati, Tract 90, scritto da Newman stesso nel 1841. Tract 90 si riferiva al problema dei 39 Articoli, proposizioni stabilite dalla Chiesa anglicana, a cui, per esempio, gli studenti universitari dovevano sottoscrivere prima di prendere i gradi. Newman scrisse Tract 90 per tenere sotto controllo colui al quale non piaceva né la Via media né il suo severo giudizio contro Roma. Taluni credettero che gli Articoli stessi erano troppo protestanti e antiromani e Newman quindi cercava di dimostrare in che misura i 39 Articoli potrebbero essere interpretati nel senso della dottrina di Roma. Egli era disposto ad accettare critiche e a correggere qualsiasi cosa fosse provata falsa nel trattato.

Tuttavia egli non era preparato alla collera e all’indignazione che seguirono dopo la pubblicazione del Tract 90. Rimase “sbalordito per la violenza” (Apo, p. 228), ma non ebbe paura. Forse fu anche un “sollievo” per lui. Riandando a quel tempo, scrisse: “Non c’era più fiducia in me – io per primo avevo già perduto la fiducia in me stesso… Sentivo che con questo avvenimento una Provvidenza benevola mi aveva salvato da una posizione che sarebbe diventata impossibile” (Apo, pp. 228-229). Con una lettera al suo vescovo, Newman lasciò l’incarico nel Movimento di Oxford, dicendo:

Ho agito perché altri non agivano, e per questo ho sacrificato una quiete a cui tenevo tanto. Voglia il Signore restare con me nel tempo che verrà, come è stato con me finora! E sarà con me, se io potrò soltanto mantenere pulite le mani e puro il cuore. Credo che potrò sopportare – o almeno cercherò di sopportare – qualsiasi umiliazione personale, pur di non tradire i sacri valori che il Signore di ogni grazia e potenza mi ha affidati. (Apo, p. 230)

2. La questione è definita

Dopo aver tracciato brevemente il pensiero di Newman in generale fino al 1841, è bene ora definire più precisamente la questione della Chiesa come egli la vide.

La questione, scrisse Newman, “verteva sulla fede e sulla Chiesa. Questo era per me, dall’inizio fino alla fine, il punto centrale della controversia. C’era una incompatibilità di diritti rivendicati tra la religione romana e quella anglicana, e la storia della mia conversione non è altro che il processo necessario per trovarne la soluzione” (Apo, p. 251). Nel 1838 Newman aveva contrastato una immagine della Madonna con il Bambino, e un’immagine del Calvario per mostrare la differenza tra la teologia romana e quella anglicana. La teologia anglicana “vedeva la verità come una cosa perfettamente oggettiva e a sé stante; non (come nella teologia di Roma) nascosta nel seno della Chiesa, formante quasi una cosa sola con lei, a lei stretta e quasi perduta in quell’abbraccio; ma sola e inaccessibile, come sulla croce o nella risurrezione – con la Chiesa vicino, ma in disparte” (Apo, p. 251). La teologia anglicana separa la Verità dalla Chiesa, la teologia romana le unisce intrinsecamente. La questione allora è la relazione tra le due, che è in realtà la questione della relazione tra la fede divina e la fede della Chiesa.

Qui bisogna tener presente che Newman considerava la Chiesa apostolica, la Chiesa dei Padri, attraverso cui noi riceviamo il Credo, come la Chiesa fondata da Cristo. Questa era la Chiesa che lui cercava e la pietra d’inciampo per cercarla nella Chiesa cattolica erano le cosiddette aggiunte al Credo. Questo è ciò che si intende con Credo contro Chiesa, fede divina contro fede della Chiesa, apostolicità contro cattolicità. Alla fine, vedremo che è una questione di sintesi, Credo e Chiesa, piuttosto che di antitesi.

3. La questione diventa urgente

Mentre Newman andava ancora, in un modo o nell’altro, in cerca di una Via media, stava per ricevere “un colpo che avrebbe allontanato per sempre dalla mia mente ogni idea di vie medie o compromessi” (Apo, p. 243). Durante la lunga vacanza del 1839 egli cominciò uno studio sistematico sulla storia dei monofisiti. Fu durante questa lettura che per la prima volta si affacciò alla sua mente un dubbio sulla sostenibilità dell’anglicanesimo.

Il mio baluardo era l’antichità; ora qui, nella metà del quinto secolo, trovai – così mi sembrava – rispecchiata la cristianità dei secoli XVI e XIX. In quello specchio vidi la mia faccia, ed ero un monofisita. La Chiesa della Via media era nella stessa posizione della comunione orientale, Roma era dove è adesso, e i protestanti erano gli eutichiani. (Apo, p. 254)

Per Newman fu difficile capire in che modo gli eutichiani o i monofisiti potessero essere eretici, se non lo fossero anche i protestanti e gli anglicani. Il dramma della religione e la lotta tra la verità e l’errore erano uguali in tutti i tempi: I principi e i modi di agire della Chiesa di oggi erano quelli della Chiesa di allora; i principi e i modi di agire degli eretici di allora erano quelli dei protestanti di oggi. (Apo, p. 254)

Questa scoperta lo spaventò. Trovava una tremenda rassomiglianza tra le morte memorie del passato e la cronaca del presente.

Non molto tempo dopo aver finito il suo studio sui monofisiti, Newman ricevette un articolo scritto da un eminente cattolico romano inglese, Nicholas Wiseman, più tardi Arcivescovo di Westminster, sulle Pretese dell’anglicanesimo. Dopo la prima lettura Newman non vi trovò nulla di speciale, ma un suo amico gli indicò le parole di sant’Agostino, ripetendole diverse volte: Securus judicat orbis terrarum – tutto il mondo giudica correttamente. Dopo che l’amico se ne fu andato, sembrava a Newman di sentire ancora queste parole (cf. Apo, p. 256).

Quale nuova luce gettava questo principio su ogni controversia nella Chiesa! … Il giudizio deliberato a cui finalmente tutta la Chiesa si rimette e si acquieta, è una regola infallibile e una sentenza decisiva contro quelle parti di essa che protestano e si separano. (Apo, p. 257)

Le parole erano per Newman “come quel Tolle, lege – tolle, lege che convertì lo stesso sant’Agostino. Securus judicat orbis terrarum. Con queste grandi parole dell’antico Padre, che interpretavano e riassumevano il lungo e diversificato corso della storia ecclesiastica, la teoria della Via media era assolutamente polverizzata” (Apo, p. 257).

Intanto, Newman fu determinato a essere guidato dalla sua ragione, non dalla sua immaginazione. “I cieli si sono aperti e poi richiusi. Per un momento era sorto il pensiero: ‘Alla fin fine la Chiesa di Roma si troverà dalla parte della ragione; e poi era svanito'” (Apo, p. 258). Ciononostante osservò: “Chi ha visto un fantasma non può continuare come se non l’avesse mai visto” (Apo, p. 258). Abbandonò per sempre l’idea della Via media.

In questo modo Newman si trovò solo in compagnia di quelle speciali imputazioni che egli aveva rivolto contro Roma, vale a dire che essa aveva fatto delle aggiunte alla fede e che non insegnava formalmente ciò che poi approvava in pratica, specialmente riguardo ad alcune pratiche devozionali. Egli era, come disse lui stesso, “quasi diventato un puro protestante” (Apo, p. 260). Non aveva una sua teologia.

Nell’estate del 1841, dopo la tempesta susseguitasi al Tract 90, Newman si mise a tradurre sant’Atanasio, ma tra luglio e novembre accaddero tre cose che lo condussero in uno stato di profondo abbattimento. Appena all’inizio del suo studio si sentì ancora confrontato da un fantasma, questa volta “in una forma molto più acuta” (Apo, p. 280). Ciò che trovò nella storia dei monofisiti, lo trovò nella storia degli ariani. “Vidi chiaramente che, nella storia dell’arianesimo, i puri ariani erano i protestanti, i semi-ariani erano gli anglicani, e che Roma era adesso ciò che era allora” (Apo, p. 281).

Quando era ancora alle prese con questo fantasma, un secondo colpo si abbatté su di lui: la condanna de facto del Tract 90 da parte dei vescovi.

La terza cosa che ferì Newman fu l’istituzione di un episcopato anglicano a Gerusalemme, che avrebbe esercitato giurisdizione anche sui protestanti. Quest’ultimo fatto fu un’azione congiunta tra l’Inghilterra e la Prussia e Newman vide che i vescovi stavano fraternizzando, con la loro azione o con la loro tolleranza, con comunità protestanti e permettendo ad esse di mettersi sotto un vescovo anglicano, senza chiedere loro di rinunciare in alcun modo ai propri errori o senza badare se avessero ricevuto debitamente il battesimo e la confermazione… Questo fu il terzo colpo, che mandò definitivamente in frantumi la mia fede nella Chiesa anglicana… La Chiesa anglicana poteva avere la successione apostolica, come l’avevano i monofisiti; ma atti come quelli che erano in corso, mi indussero al gravissimo sospetto non tanto che presto avrebbe cessato di essere una Chiesa, ma che fin dal secolo XVI non fosse mai stata una Chiesa. (Apo, p. 284)

4. La questione è chiarita

Ora Newman era “sul letto di morte” (Apo, p. 289) per quanto riguardava la sua appartenenza alla Chiesa anglicana, ma non poteva ancora trovare la Chiesa apostolica nella Chiesa di Roma. La sua difficoltà si dibatteva ancora nelle cosiddette aggiunte ed esagerazioni. Gradualmente tuttavia arrivò a sentire, come egli stesso dice, “la forza di un’altra considerazione. Nel corso del tempo l’idea della Beata Vergine si era, per così dire, ingrandita nella Chiesa di Roma; ma la stessa cosa era successa con tutte le idee cristiane, come, per esempio, con quella della santa Eucaristia. Tutta la scena pallida, evanescente, lontana del cristianesimo apostolico si vede in Roma… L’armonia dell’insieme, però, rimane naturalmente quella che era” (Apo, p. 337).

Questo era l’ultimo punto della ricerca di Newman riguardo alla Chiesa cattolica romana, cioè lo sviluppo della dottrina. C’era, o non c’era tale sviluppo? L’idea dello sviluppo della dottrina è stata presente per anni in fondo alla mente di Newman. Finalmente egli espose la risposta sistematicamente nel saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana2. E’ proprio nella comprensione di Newman dello sviluppo della dottrina dove possiamo vedere più chiaramente il posto della divina Provvidenza nella sua ecclesiologia.

Newman testifica nell’Apologia che non perse mai di vista l’idea dello sviluppo della dottrina nelle sue speculazioni. Egli infatti non saltò da un punto di vista all’altro, ma costruì un ponte tra il Credo e la Chiesa con il materiale disponibile dato dalla divina Provvidenza. Il punto di consistenza nel progresso del pensiero di Newman è il suo problema del Credo di fronte alla Chiesa, che in fondo è una questione di autorità (cf. Apo, p. 338).

In realtà tutte le lotte di Newman riguardo alla Chiesa anglicana e quella romana hanno a che fare con la questione dell’autorità, benché la parola non appaia spesso. Le lotte di Newman possono essere viste oggi come un microcosmo di tutta la questione ecumenica che, alla sua base, è una questione di autorità, una questione ecclesiologica fondamentale che tocca la stessa natura della Chiesa.

Passo dopo passo Newman giunse alla convinzione che il principio di sviluppo apparteneva alla stessa natura del Vangelo e del cristianesimo. Se il cristianesimo è una religione universale, che non conviene solo ad una certa regione o ad una certa fase della storia, ma è valida per ogni tempo e per ogni luogo, non può che variare nelle relazioni e nei contatti che ha con il mondo che gli sta intorno. Vale a dire: esso sarà soggetto a sviluppo. (Sviluppo, p. 91)

Nell’Apologia, Newman scrive che il principio di sviluppo non solo ha dato il motivo per certi fatti, “ma era anche in sé un fenomeno filosofico singolare, che dava un carattere tutto proprio alla storia del pensiero cristiano” (Apo, p. 338). Così Newman applicò il principio all’intera idea del cristianesimo. Lo sviluppo è naturale e necessario perché un’idea viva, quella del cristianesimo, è stata affidata al pensiero discorsivo dell’uomo.

Dopo aver detto che lo sviluppo è consono alla natura della sacra Scrittura e con l’idea del cristianesimo, non abbiamo ancora risposto a due domande fondamentali: come si distingue lo sviluppo dalla corruzione e quale autorità deve fare la distinzione, vale a dire, chi garantisce la purezza della dottrina cristiana?

Nel suo Saggio, dopo aver dato motivi antecedenti per lo sviluppo della dottrina cristiana, Newman offre argomenti storici per il suo sviluppo e le istanze al riguardo. Poi affronta l’urgente questione della distinzione tra lo sviluppo autentico e la corruzione, formulando i suoi ormai famosi criteri per il genuino sviluppo di un’idea.

Forse il fondamento di questi criteri può essere sintetizzato nel principio dell’analogia, secondo il quale tutte le opere di Dio portano il marchio di una Sapienza identica. La natura e l’ordine delle cose rivelano un disegno, sostenuto da alcuni grandi eppure semplici principi, che conferiscono al tutto un’armonia e una bellezza maiestatica. I principi basilari del piano divino sono più o meno evidenti nella creazione. Un evento che ha luogo secondo queste leggi non è inverosimile che sia opera di Dio. Quando guardiamo le grandi opere di Dio da noi conosciute, vediamo che sono operate secondo una legge di sviluppo. Dio non crea nulla in uno stato di completezza definitiva. Egli permette alle cose di crescere e di raggiungere gradualmente il loro compimento. Assodato questo principio basilare, possiamo vedere che lo sviluppo della tradizione dogmatica ci suggerisce che è stato Dio a governare la storia del dogma e guidare la Chiesa nell’acquisizione della verità.

Intanto rimane la questione della garanzia della purità. La risposta è da trovarsi nella dottrina dell’infallibilità della Chiesa e del Magistero, che Newman finalmente arrivò a riconoscere come essenziale secondo la Provvidenza. In una lettera a un amico scritta il 14 luglio 1844, egli osserva:

Ammesso che le (speciali) dottrine di Roma non si trovino esplicitamente nella Chiesa primitiva, tuttavia penso che le tracce che ne riscontriamo siano sufficienti per autorizzarle e dimostrarle, in base all’ipotesi che la Chiesa abbia un’assistenza divina, quantunque non siano sufficienti da sole a dimostrarle. Così che tutta la questione concerne semplicemente la natura della promessa dello Spirito, fatta alla Chiesa. (Apo, p. 338)

Qui abbiamo il tocco di Newman sulla sintesi tra il Credo e la Chiesa. La divina Provvidenza ha dato la struttura della Chiesa ed ha usato questa struttura per la salvaguardia e l’autentico sviluppo della dottrina. Non è difficile trovare il legame necessario tra il fatto dello sviluppo della dottrina e quello di una Chiesa con un’autorità infallibile. In verità, sembra che la difficoltà starebbe nel non trovare la connessione.

La base dell’argomento di Newman è questa: se la Rivelazione viene espressa in una dottrina e se, come è stato provato vero, lo sviluppo appartiene alla natura della dottrina, ci deve essere un’autorità infallibile concessa da Dio per proteggere la dottrina dalla corruzione. Newman lo esprime così: Se vi deve essere sviluppo, allora, considerando che la Rivelazione è un dono divino, Colui che ce l’ha comunicata non c’e l’ha virtualmente comunicata, se non ha disposto il mezzo che la possa garantire dalla perversione e dalla corruzione in ogni sviluppo che le sopravvenga per la necessità della sua natura. Infine, ho mostrato che questa attività intellettuale nel succedersi delle generazioni, che è l’agente dello sviluppo, deve essere infallibile nelle sue decisioni, per quanto ed in quanto può pretendere di essere depositaria della Rivelazione. (Sviluppo, p. 121)

Così siamo giunti alla dottrina dell’infallibilità della Chiesa e del suo Magistero. “Infatti, io penso che l’infallibilità significhi il potere di decidere se questa o quella o un’altra ancora o un’asserzione teologica o etica qualsiasi corrisponda alla verità” (Sviluppo, p. 108).

Newman cominciò il saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana all’inizio del 1845 e riporta: “Man mano che progredivo le mie difficoltà scomparivano, sicché cessai di parlare di ‘cattolici romani’ e li chiamai in tutta libertà ‘cattolici’. Prima di arrivare alla fine, risolvetti di chiedere di essere ammesso fra loro, e il libro è rimasto allo stato in cui si trovava allora, incompiuto” (Apo, p. 375).

Il 9 ottobre 1845 John Henry Newman fu accolto in quella Chiesa che aveva riconosciuto come “l’unico ovile di Cristo” (Apo, p. 375).

5. Il ruolo della divina Provvidenza

La storia della conversione di Newman è la storia della riconciliazione tra Chiesa e Credo, cioè la riconciliazione della fede della Chiesa e la fede divina nel pensiero di Newman. Quando Newman riconobbe la Chiesa cattolica come divina, questa riconciliazione fu portata a termine. La chiave di questa sintesi è la dottrina della divina Provvidenza.

Per Newman era assolutamente logico che se la divina Provvidenza diede la Chiesa, essa avrebbe anche provveduto ai mezzi per mantenerla e proteggerla. Se la divina Provvidenza diede la Rivelazione, essa l’avrebbe preservata intatta e immune dalla corruzione.

Newman cercò per molti anni di vedere nella Comunione anglicana quella Chiesa di cui parlò con convinzione e a cui aspirava il suo cuore. In un certo senso, egli cercò di rimodellarla secondo le sue idee. Si ha l’impressione che Newman cercava di stiracchiare una vecchia maglia per indossarla su un uomo che era cresciuto, allargando per quanto possibile tutte le cuciture, rattoppando parti consunte e sdrucite, continuando ad allargarla fino al limite nell’uso quotidiano. Col tempo la maglia si rovinò del tutto e l’uomo rimase insoddisfatto.

Solo quando Newman smise di cercare nella Comunione anglicana ciò che non c’era, e si dispose ad accettare ciò che c’era nella Chiesa romana, cominciò, passo dopo passo, a trovare ciò che il suo cuore aveva già riconosciuto vero. Solo allora la teoria di carta della Via media cedette il passo alla realtà vivente dell’unica Chiesa di Cristo.

Il punto in cui ebbe fine la battaglia di Newman con la “vecchia maglia” dell’anglicanesimo arrivò con la serie dei tre scossoni di cui abbiamo parlato prima. Dopo i tre colpi che lo hanno relegato sul letto di morte nella Comunione anglicana, si liberò della vecchia maglia, tremò per un po’ di tempo dal freddo dell’incertezza, finché non trovò, non un’altra maglia, ma un clima migliore, e alla fine, poté deliziarsi nella realtà della vera Chiesa.

La conversione di Newman fu, dunque, non una conversione da una Chiesa ad un’altra, ma la conversione alla Chiesa in quanto tale. Fu una conversione eminentemente ecclesiastica. Per questa ragione Newman poté dire che c’è una differenza, non di grado, ma di sostanza tra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica.

In fin dei conti, una conversione è opera della grazia di Dio nell’anima e la risposta dell’anima nella fede. Il processo si svolge secondo la Provvidenza di Dio e rimane, in gran parte, un mistero al vasto pubblico. Per Newman la rotta verso il porto della Chiesa passò attraverso un mare agitato. Egli raggiunse la meta fissando lo sguardo sulla luce del faro della divina Provvidenza. Su questa strada poté scoprire l’opera della divina Provvidenza nella Chiesa di Roma e trovare in essa la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, a lungo da lui cercata.

1 Newman John Henry, Apologia pro vita sua (= Apo), a cura di F. Morrone, Paoline, Milano 2001, p. 378.
2 Newman John Henry, Lo sviluppo della dottrina cristiana (= Sviluppo), nuova edizione a cura di Luca Obertello, Jaca Book, Milano 2002.