Una rilettura del romanzo “Callista”
di Bernadette Waterman
Università di Dallas, Texas
Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni pronunciate al simposio internazionale “Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman” che si è tenuto alla Pontificia Uniersità Gregoriana per iniziativa dell’International Centre of Newman Friends.
John Henry Newman e il romanzo. Il beato inglese non è un maestro del genere – anche se c’è chi lo ha proposto come patrono dei romanzieri – ma nel suo Callista (1885) offre ai lettori una visione di cristiana eroica resistenza al male.
Callista rispecchia la lotta perenne della Chiesa militante contro l’anticristo. Newman scrive: “Proprio come i modelli di Cristo precedettero quest’ultimo, così fanno le ombre dell’anticristo (…) Ogni epoca contiene in sé l’immagine di eventi futuri, che, soli, sono il reale compimento della profezia che sta al loro inizio”.
Lo scrittore, in contrapposizione agli stereotipi protestanti dei primi cristiani, grazie alla sua sorprendente conoscenza dell’antichità, illustra la pratica cristiana antica. Messe, catecumeni, confessioni, vescovi, paramenti sacri, miracoli, immagini, reliquie. Il racconto paragona la Roma antica a un’Inghilterra concepita quasi completamente in termini post-cristiani.
Nel romanzo, Cornelius – un uomo rozzo del periodo imperiale – si vanta della grandezza economica e militare di Roma, che noi lettori sappiamo essere in declino. Sentendosi minacciato dai cristiani, Cornelius “procede per fatti”. E il grande fatto di Roma è il suo potere, celebrato in modo cerimoniale nei Giochi denominati Secolari nei quali dei giovani e delle vergini propiziavano i favori degli dei di Roma, e duemila “valenti” gladiatori marciavano per uccidere in suo onore. Dietro ai gladiatori venivano i bruti satiri saltellanti: il vacuo potere imperiale è servo dell’appetito.
Cornelius invoca il motto romano Novum saeculum, espressione simile a quella che richiama il simbolismo massonico sul dollaro americano. La nostra epoca secolare, perseguita con violenza dai massoni in Messico lo scorso secolo, abbonda di costosi templi commerciali dedicati al dollaro. Dietro ci sono “satiri, che saltellano e fanno capriole”, culti più oscuri al servizio di appetiti ancora più meschini.
La “Santa Muerte”, un idolo invocato dalla malavita della droga e della prostituzione a protezione dalle uccisioni, ha ispirato una parodia demoniaca di rituali cristiani nell’area al confine con il Messico. A 1.200 chilometri a nord, nella periferia di Dallas, i supermercati vendono le sue candele votive nere accanto a candele per il Sacro Cuore e la Vergine di Guadalupe.
La Roma di Newman celebra se stessa ignorando i barbari che incombono. E oggi ci si compiace della propria tolleranza mentre anticristiani spietati mettono in pericolo la vita della religione.
Aristo scherza su come Roma con le sue tasse mangi le sue stesse membra. Bassi tassi di natalità e spese pubbliche inadeguate non appartengono esclusivamente all’antichità. Agellius soffoca la propria coscienza per scendere a compromesso con Roma sul matrimonio. Quanti amministratori cattolici della sanità pubblica fanno oggi lo stesso? Agellius accetta di corteggiare Callista, rifiutando legalmente la fedeltà e il suo cortese compromesso con Jucundus lo impegna a un auto-inganno tanto immorale quanto l’aperta apostasia di Juba. In modo evidente, John Henry Newman rende Agellius profondamente grato per avere evitato un peccato che, a pensarci, è molto simile a certi usi moderni.
In L’attuale posizione dei cattolici in Inghilterra (1851) Newman riporta le calunnie vittoriane che equiparano i voti cattolici alla prostituzione e all’omicidio. Ci si potrebbe chiedere con Aristo: “Perché mai nel mondo si dovrebbe provare terrore per questi poveri spauracchi cristiani?”. Newman ha la risposta: il carattere imperiale della Chiesa. La verità di Dio, paziente e inamovibile, né violenta né vendicativa, ha un’arma, ovvero che ogni cuore desidera la pace. Gli imperi terreni temono il cristianesimo perché non è soggetto al potere di nessuno, né dei media, né di Facebook, né, all’epoca, dei carnefici romani.
Nel romanzo, Jucundus e Polemo condannano la venerazione esclusiva che resiste alla neutralità ufficiale. Jucundus si lamenta: “Giurate sul genio dell’Imperatore, invocate la dea Roma (…) Noi non vi stiamo intrappolando, (…) non diciamo “Giurate sul genio di Cesare per cui egli ha il genio, nero, bianco o pezzato”. Vi spieghiamo il significato dell’atto. È una mera espressione di fedeltà all’impero”.
Jucundus considera perverso Agellius quando quest’ultimo sceglie la sofferenza piuttosto che abbandonare la verità: “La verità! – ha gridato – che cosa è la verità? Dove hai preso questo gergo? Che sciocchezza ti sta turlupinando? (…) Denunciare tutti gli altri riti tranne il proprio è quasi tradimento”. Il potere dello Stato, in definitiva, è solo il potere di morte. L’Impero di Roma dell’anticristo è disarmato perché Cristo vince la morte.
In modo per loro offensivo la Chiesa cattolica afferma che esiste una verità stabile, permanente e universale, alla quale alcuni esseri umani hanno accesso e tutti potrebbero averlo. Il rifiuto dei cristiani di venerare le menzogne confonde quanti pensano che tutta la religione sia falsa o soggettiva. Fa infuriare i nostri contemporanei che ritengono la religione talmente un fatto privato da non dover mai essere espressa neanche pregando in pubblico.
La tolleranza compromettente dell’anticristo viene attuata in modo aggressivo. La semplice disapprovazione, come “l’odio” di Agellius “per il peccato e per la volgarità”, è considerata un attacco e a volte solo la ritorsione letale può soddisfare i tolleranti.
La strega Gurta illustra questa ferocia nei capitoli dedicati da Newman a Juba, il fratello ribelle di Agellius.
Juba disprezza “l’effeminato” Agellius perché evita i bagordi pagani. Juba non pone limiti alla libertà di alcuno tranne che di coloro che potrebbero limitare la sua. Ritiene di essere libero di resistere al cristianesimo che sembra inibire Agellius, ma brama la compagnia del fratello nell’apostasia. Juba tormenta Agellius e insulta Cipriano, ma affronta la violenza della folla per aiutarlo a sfuggire agli insorti. Nega di credere in Dio, come l’ateo di Chesterton che pensa di non creder in nulla, ma che, di fatto, crede a tutto. Juba indossa amuleti e sussurra incantesimi.
Quanti di coloro che, ai nostri giorni, sostengono di essere superiori alla religione, si rivolgono agli oroscopi per avere dei consigli?
Dal padre cristiano deceduto, Juba, la figura del cristiano non osservante, riceve la consapevolezza del mondo invisibile che è, come dice Newman in un sermone, “fede, un dono soprannaturale. La fede possono averla i buoni e i cattivi ed è molto potente; anche i cattivi sono stati creati per servire la sua gloria e la sua lode (…) la fede non si perde facilmente”. Umiliato dal male che ha scelto, dominato da esso senza volerlo, Juba non può più ingannare se stesso sulla realtà o la bontà di Dio.
In fondo, il iii secolo del romanzo pervaso da demoni, tormentato dalle locuste, danneggiato dal peccato umano, assomiglia al secolo di Newman e anche al nostro.
Il sofista Polemo esprime satiricamente un non senso vagamente hegeliano su una sorta di spirito del mondo incarnato in un governo mondiale unificato. La dolce nostalgia romantica per il paganesimo ha ravvivato quell’idea sofistica che ha prodotto il nazionalismo del xix secolo e il fascismo del xx secolo, la cui eredità perdura. Il relativismo però ha cancellato la fiducia del xix secolo nel progresso morale perché, come mostra Newman, il potere secolare deve proibire alla verità di competere con l’opinione e il sentimento.
I postmoderni che si auto-compiacciono definiscono le asserzioni di verità come lotta vacua. Tuttavia, i romani di Newman, più accorti, temono il desiderio di una realtà che nella sua essenza non sia vacua prepotenza.
Newman definisce la fede cattolica principio di impero mai esistito in precedenza. Lo statista romano comprese che avrebbe dovuto affrontare un rivale, altrimenti il cristianesimo avrebbe “rivoluzionato l’impero”. Pertanto Newman inserisce nel testo due convertiti storici, Arnobio e Firmiano, per richiamare l’attenzione dei lettori sul tipo di disillusione verso la religione vuota che storicamente portò i filosofi pagani al cristianesimo.
Persino Jucundus ricorda la delusione biblica per la “vanità delle vanità”. Auspica, con parole che ricordano quelle di san Paolo, qualcosa che non sia “un conflitto né un bagordo né un eccesso né un alterco”. Tuttavia, l’Impero dell’anticristo inevitabilmente li promuove tutti e quattro.
Aristo incarna il perfetto gentiluomo di Newman. Apprezza “l’orgoglio della mente, il divertimento dell’intelletto, la voce e gli occhi del genio”. Aristo presenta le divinità pagane come allegorie, simboli di realtà naturali o morali. Arnobius deride questa miticizzazione revisionista. Un contemporaneo di Newman, il poeta anglicano non credente Matthew Arnold, cercò di ricreare il cristianesimo come mito nuovo e più credibile. Come la religione di Arnold, la grande cultura di Aristo nasconde solo un narcisismo che inganna se stesso. La grande cultura lo tradisce. Inveisce contro i tragediografi per la loro mancanza di consolazione mentre sua sorella attende la tortura con serenità. Raccomanda a Callista il suicidio, esortando in modo simbolico alla morte della bellezza, come poi avrebbero fatto tanti artisti del xx secolo, e in modo disonesto finge di volersi uccidere. Continua, dunque, a vivere nella solitaria segregazione narcisistica dalla quale Callista evade.
Più che il personaggio di un romanzo, Callista stessa è un’illustrazione di un sermone: onestà verso se stessi e conseguente desiderio di Dio. Le guardie romane la trattano in modo stranamente gentile. Callista diventa a sua volta paganesimo virtuoso, carità rigorosa, desiderio sponsale della Persona divina, riconoscimento dell’inadeguatezza umana e, infine, fede fino al martirio. Tuttavia, intorno a lei si muovono figure più vive. Newman utilizza l’empatia della narrativa per esporre la sua visione più ampia del potere dell’anticristo, sempre contrapposto alla fede che pur non avendo alcun potere politico, gli resiste.
Roma è insicura e quindi orgogliosa. Deve uccidere quelli che non si sottomettono alla sua religione. Callista è sicura di sé e quindi forte grazie alla sua umiltà: “La via per il potere è la debolezza, la via per il successo è il fallimento, la via per la saggezza è la stoltezza”.
Agellius e Aristo, Juba e Gurta e oltre a loro i romani, Firmiano, Arnobius, Cipriano alla fine riconoscono tutti il potere del desiderio di una verità stabile. La magnificenza della verità sembra a malapena qualcosa di più del potere di resistere al male, ma il sacrificio necessario per resistere, l’Europa ha potuto sperimentarlo nel xx secolo.
I cospiratori della Rosa Bianca studiavano Newman perché egli comprendeva profondamente che la seria autoconsapevolezza, la capacità di empatia e di carità vengono alimentate dalla resistenza al male.
Newman non è un romanziere abbastanza abile da riuscire a dare vita a Callista. Tuttavia sono pochi i narratori che hanno una visione tanto ricca, complessa, ben informata e completa per comunicare che il desiderio di Dio nel cuore umano è l’arma principale dell’impero contro l’anticristo nel corso di tutta la storia. Newman è un uomo che cerca realtà, non ombre. Forse è perché percepisce la realtà della santità in modo talmente acuto da non poter sopportare la mera creazione di un santo scaturito dalla fantasia.
Alla fine, egli parla di santi reali e più che parlarne, abbraccia la forza della loro santità, si unisce all’impero definito dalla loro umiltà, pace e volontà di martirio e ci esorta a fare altrettanto.
(©L’Osservatore Romano – 31 dicembre 2010)