Gesù sceglie il distacco affettivo

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1. La comprensione può essere chiamata una legge eterna, poi­ché essa è simboleggiata, o piuttosto esiste perfetta nel suo tipo tra­scendente, che è il reciproco e ineffabile amore della Trinità. Dio, sebbene infinitamente Uno, è stato sempre Trino. Ha sempre esul­tato nel Figlio e nello Spirito ed essi in lui; così per tutta l’eternità egli è esistito, non solitario, anche se solo, poiché in questa incom­prensibile moltiplicazione di se stesso e ripetizione della sua perso­na, egli aveva una beatitudine tanto perfetta che niente di quanto aveva creato poteva aggiungervi qualcosa. Soltanto il diavolo è steri­le e isolato, chiuso in se stesso, e con lui i suoi servi.

2. Quando per la nostra salvezza il Figlio venne in terra e prese il nostro corpo, egli non poteva vivere senza la comprensione degli al­tri. Per trent’anni visse con Maria e Giuseppe, immagine della Tri­nità celeste qui in terra. Oh la perfezione dell’armonia che esisteva fra i tre! Non uno sguardo di uno di essi che gli altri due non capis­sero, sguardo che esprimeva più che se fosse stato spiegato con mil­le parole, anzi era capito ancora di più, accettato, ripetuto, confer­mato. Simile a tre strumenti in assoluto accordo, che vibrano tutti quando uno vibra, e vibrano in perfetta armonia.

3. La prima frattura di questa unione fu causata dalla morte di Giuseppe. Non fu discorde nel suono, perché fino all’ultimo istante della sua vita egli fu tutt’uno con loro, e l’armonia fra i tre non face­va che diventare più intensa e più dolce nel sottostare a nuovi avve­nimenti; anzi, nei mesi del suo declino, della sua malattia e della sua morte, acquistò una più vasta potenza. Poi fu come una melodia at­traverso un numero infinito di note eseguite perfettamente e con precisione, per tempo e per tono, da tutti e tre. Ma terminò in una nota più bassa, e quando Giuseppe morì, la nota fu ancora più de­bole. Non che Giuseppe, benché così santo, aggiungesse molto al suono emesso dagli altri due, ma la comprensione, con il suo vero significato, fa numero e, alla sua morte, una delle tre arpe aveva le corde allentate e taceva.

4. Quanta comprensione fra i tre, il momento prima che Giusep­pe morisse: essi lo sostenevano e lo assistevano, ed egli li guardava e si riposava in essi con devozione intatta, senza riserve, suprema, poiché era nelle braccia di Dio e della Madre di Dio. Come una fiamma si sprigiona e poi si spegne, tale fu l’estasi di quell’ultimo istante ineffabile, poiché ognuno sapeva e pensava al dolore che do­veva seguire alla rottura di questo nodo. Un istante, molto diverso, di gioia, non di dolore, fu uguale ad «sso per intensità di sentimen­to: quello della nascita di Gesù. La nascita di Gesù, la morte di Giu­seppe, momenti di indescrivibile dolcezza, senza l’uguale nella sto­ria dell’umanità. San Giuseppe andò al limbo, ad attendervi la sua ora, fuori dalla presenza di Dio. Gesù doveva predicare, soffrire e morire; Maria doveva essere testimone delle sue sofferenze, e, anche dopo che egli fu nuovamente risorto, doveva continuare a vivere senza di lui tra i mutamenti della vita e l’insensibilità dei pagani.

5. La nascita di Gesù, la morte di Giuseppe, questi momenti di simpatia vivissima e pura tra le persone di questa Trinità terrena ne segnarono il principio e la fine. La morte di Giuseppe, sciogliendo­la, fu la fine repentina di se stessa. Non fu che il principio di quel cambiamento che si doveva operare nel Figlio e nella Madre. Du­rante questi trenta anni, ognuno di essi era stato difeso dal mondo, ed avevano vissuto uno per l’altro. Ora egli doveva andare a predi­care, a patire, e, come per la maggior parte e per i più inevitabili dei suoi cimenti, ve ne fu uno che egli intraprese dal principio alla fine volontariamente, anche quando non vi era obbligato: si privò della gioia di quello scambio reciproco di cuori – del suo cuore con il cuore di Maria – di cui aveva goduto sin da quando aveva preso na­tura di uomo, e che aveva sempre posseduto in maniera divina con il Padre e con lo Spirito Santo.

O anima mia, ti è permesso di contemplare questa unione dei tre, e di avere anche tu parte a questa armonia, però con la fede e non con la vista. Dio mio, io credo e so che una comunione di cose celesti fu aperta sulla terra, e non è stata mai sospesa; è mio dovere e mia felicità esservi ammesso; è mio dovere e mia felicità essere in tono con quella musica commoventissima che allora incominciò a farsi sentire. Dammi quella grazia capace di farmela sentire e com­prendere, perché possa penetrare dentro di me. Che gli aneliti dell’anima mia siano con Gesù, con Maria e con Giuseppe. Fammi vi­vere nella oscurità, fuori del mondo e dei suoi pensieri, insieme a lo­ro. Fa’ che io ricorra a loro nel dolore e nella gioia, e viva e muoia nella loro dolce armonia.

6. L’ ultimo incontro terreno tra Gesù e Maria avvenne durante la festa nuziale in Cana. Eppure, anche allora, qualcosa era stata tolta a quella felice intimità, poiché essi non vivevano più semplicemente uno per l’altro, ma si mostravano in pubblico, e occupavano il loro posto nella nuova vita che incominciava. Egli manifestò la sua gloria con il primo miracolo, ed ella manifestò la propria, col fare della sua intercessione lo strumento del miracolo. Egli la onorò ancora di più uscendo per lei dal prestabilito ordine di cose e sebbene l’ora sua di operare miracoli non fosse ancora giunta, l’anticipò dietro sua ri­chiesta. Mentre operava il miracolo, egli prese congedo da lei con le parole «o donna che cosa c’è tra te e me?» (Gv 2;4). Così egli si se­parò recisamente da lei, anche se si separò con una benedizione.

7. In verità bisognava che colui che doveva essere il vero Gran Sacerdote, nell’esercitare il suo ufficio esteso a tutto il genere uma­no, fosse libero da ogni legame terreno e da simpatie della carne. E una delle ragioni delle sua lunga dimora a Nazaret con la Madre, può essere stata quella di mostrare che, come aveva rinunziato alla gloria del Padre suo e alla sua, su in cielo, per diventare un uomo, così rinunziò alle gioie pure e innocenti della sua casa terrena, per poter essere un sacerdote. Allo stesso modo, in tempi antichi, Melchisedec viene descritto senza padre e senza madre; i Leviti si mo­strarono in tal modo sinceramente degni dell’incarico sacerdotale e formarono la classe dei sacerdoti, perché si erano corazzati contro l’affetto naturale e dissero al padre e alla madre, «Io non vi cono­sco», e alzarono la spada contro i propri familiari, quando l’onore dei Signore degli eserciti chiedeva tale sacrificio. Allo stesso modo nostro Signore disse a Maria: «Che cosa c’è tra te e me?». Era la se­parazione del sacrificio, il primo passo di rito del grande atto che doveva essere solennemente compiuto per la salvezza dei mondo. «Che cosa c’è tra te e me, o donna?», è l’offertorio prima dell’im­molazione dell’Ostia. O Signore mio caro, tu che hai rinunziato a tua Madre per me, dammi la grazia di rinunziare decisamente a tutti i miei amici terreni per tuo amore.

8. Il Gran Sacerdote disse alla sua famiglia: «Io non ti conosco»; e tuttavia noi siamo certi che, nel pronunciare queste parole, il cuo­re di Gesù ricordò il tempo trascorso dopo la sua nascita, che egli pensò ai giorni della sua infanzia trascorsi tra i suoi parenti da lungo abbandonati. Un tempo santa Elisabetta e san Giovanni Battista fe­cero parte della sacra famiglia. Santa Elisabetta era morta, e, come san Giuseppe, sospirava il momento in cui Gesù sarebbe venuto a spezzare le catene che li tenevano lontani dal cielo. San Giovanni aveva da molto tempo abbandonato i suoi parenti, e aveva rinunciato agli interessi terreni per intraprendere la predicazione della venu­ta del Salvatore.

Dammi la grazia, o Signore, di vivere in questa società benedet­ta. La mia vita trascorra con te e coi tuoi più cari amici. Quantun­que io non li veda, non lasciarmi sedurre e conquistare da quelli che mi circondano. Tu mi hai fatto tanto bene dandomi degli amici; ma non permettere ch’io diventi loro schiavo; fa’ che io non conti su di essi, e che la mia vita sia in te, e che io conversi coi tuoi amici di questa terra e con coloro che ti circondano lassù nel cielo. La mia anima sia sempre con te, e perché con te, sia anche con coloro che sono tuoi.

9. Gesù non rinunciò solamente a Maria e a Giuseppe, ma anche ai suoi amici invisibili. Noi possiamo supporre che dopo la sua nascita, egli fosse stato in relazione con gli spiriti dei patriarchi che avevano predetto la sua venuta. In una grande occasione fu visto parlare con Mosè ed Elia della sua passione. A quale vasto campo noi ci troviamo di fronte, di cui non conosciamo quasi nulla! Quan­do egli passava le notti intere nella preghiera, la sua anima e il suo corpo provavano un benessere che il sonno non avrebbe potuto procurargli. Chi meglio del laudabilis numerus dei profeti di cui era il prototipo e il compimento poteva sostenere il Signore, e, si può dire, dargli forza e coraggio? Egli s’intratteneva con Abramo che aveva visto il suo giorno (Gv 8,57), o con Mosè che l’aveva predet­to; o con quelli che l’avevano rappresentato, come Davide e Gere­mia, o con Isaia e Daniele che con maggior chiarezza e precisione l’avevano predetto. Quando salì a Gerusalemme per patire, tutti i sacerdoti dell’antica legge vennero ad incontrarlo, essi che avevano offerto dei sacrifici simboleggianti il suo; come il sacerdote ricorda ora nella messa i sacrifici di Abele, di Abramo e di Melchisedec, e il fuoco che purificò le labbra d’Isaia e di cui egli fa partecipe i martiri e gli apostoli.

10. Intratteniamoci con Maria per qualche tempo prima di se­guire nostro Signore. Egli non permise a un uomo di prendere con­gedo dai suoi parenti per seguirlo; e nello stesso modo si comportò con sua Madre. Ma gli dispiacerà se noi rimaniamo per qualche mo­mento con lei, quantunque sia egli l’oggetto della nostra meditazio­ne? O Maria, noi siamo devoti ai tuoi sette dolori! ma questo, quan­tunque non sia compreso, non è forse il più grande e il principio di tutti i dolori che tu prevedesti dover soffrire? Come hai potuto sop­portare questa prima separazione? Come trascorsero i primi giorni della tua dolorosa solitudine? Dove ti sei ritirata? Dove passasti i tre lunghi anni e più che durò il suo ministero? Una volta, in principio, tu tentasti di avvicinarti a lui, e poi non udimmo più parlare di te si­no a quando ti ritrovammo ai piedi della croce. Dopo la grande gioia di vederlo risorto, e la perenne consolazione di vedere final­mente cessati i suoi dolori e le sue umiliazioni e la certezza che non piangerai più tuo Figlio, fosti separata da lui per molti anni, e lo sa­rai fino a quando rimarrai in questo mondo perverso.

11. La Vergine Maria, oltre agli altri dolori, soffrì la perdita di suo Figlio dopo trenta anni passati sotto il medesimo tetto. Rag­giunta l’età di dodici anni, egli le diede un pegno di quello che sa­rebbe stato, dicendo: «Io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Le 2,49); e quando incominciò a operare i miracoli le disse: «Che ho da fare con te, o donna?» (Gv 2,4) – che cosa abbiamo di comu­ne? – e subito dopo l’abbandonò. Ella tentò di vederlo una volta, ma invano, perché la folla le impedì di arrivare fino a lui, ed egli non fece nessuno sforzo per vederla, e non le disse una parola di conforto; tentò ancora una volta di giungere fino a lui; e allora era sospeso e morente in croce. Egli visse quaranta giorni sulla terra do­po la sua risurrezione, poi la lasciò sola fino alla morte. Confrontate i trent’anni di vita felice col tempo del dolore!

12. Io la vedo nella sua casa solitaria, mentre suo Figlio percorre la Giudea senza trovare un luogo su cui posare il capo; la vedo rat­tristata dalla sua solitudine e dal pensiero di vedere suo Figlio così abbandonato. Come trascorreva triste il giorno! Ora era la notizia del pericolo in cui egli si trovava, ora era l’abbandono in cui veniva lasciato. Ella seppe certamente ch’egli venne condotto nel deserto per esservi tentato. Avrebbe voluto soffrire con lui, ma non le fu concesso. Il rumore sacrilego che Gesù era diventato pazzo giunse fino a lei, e i suoi parenti ed amici partirono per soccorrerlo. Anche Maria andò a vederlo e si sforzò d’avvicinarlo, ma non poté, a causa della folla; Gesù non fece nulla per riceverla e non le disse una pa­rola di conforto. Ella ritornò a casa e visse forse tra coloro che non credevano in lui.

13. Io la vedo ancora dopo l’ascensione. E tempo di solitudine, ma di solitudine serena. E tempo d’incertezza, ma non di dolore. Il Signore era assente, ma non era sulla terra. Non soffriva più. La morte non aveva più nessun potere sopra di lui. Egli era presente a lei ogni giorno nel santo sacrificio; io vedo san Giovanni celebrare la messa e Maria che vi assiste. Ella aspetta trepidante la venuta di suo Figlio, ed ora parla con lui nel sacro rito; e dirò ancora, ella ri­ceve colui a cui diede la vita.

O Vergine santa, stammi vicino nella messa, quando Cristo viene a me, tu che lo curasti bambino, che ascoltasti sempre le sue parole, che fosti ai piedi della croce! Sta sempre vicino a me, Madre santa, perché io possa approfittare della tua purità, della tua innocenza, della tua fede, perché egli sia, come lo fu per te, il solo oggetto del mio amore e della mia adorazione.

14. Gesù aveva altri amici che s’interessavano di lui, e dei quali ci parlò molte volte: gli angeli. Fu la voce dell’arcangelo che annun­ziò la venuta dell’Eterno nel seno di Maria. Alla sua nascita gli ange­li intonarono una melodia divina e tutti vennero ad adorarlo nel presepio. Un angelo lo mandò e lo ricondusse dall’Egitto. Gli angeli lo servirono dopo che fu tentato nel deserto. Erano essi che condu­cevano a termine il lavoro dei suoi miracoli, allorquando egli non voleva pronunziare il suo supremo fiat. Ma venne il momento in cui prese congedo da essi come aveva fatto con sua Madre. Uno solo as­sistette alla sua agonia. Durante la passione egli disse queste parole che espressero chiaramente come i suoi custodi invisibili si fossero allontanati: «Credete voi ch’io non possa pregare mio Padre d’in­viarmi subito delle miriadi di angeli?» (Mt 26,53). La Chiesa nel giorno dell’Ascensione lo prega così: «Re della gloria, Signore degli angeli, non lasciarci orfani». Sì, il Signore degli angeli fu da essi ab­bandonato nel momento della tristezza e del supremo dolore.

15. Quando Gesù abbandonò sua Madre, si scelse degli amici, quasi avesse bisogno della loro compagnia. Furono gli apostoli. Egli li scelse per avere, come disse, non dei servi, ma degli amici. Li fece suoi confidenti. A loro disse cose che non diceva a nessun altro. Usò con essi la stessa liberalità che usa un padre coi suoi figli prediletti, Fu più generoso verso loro che non verso i re, i profeti, i santi del­l’antica legge. Li chiamò «i suoi amici», e dovendo elargire i suoi doni, li preferì ai saggi e ai prudenti. Esultò di gioia e li lodò perché erano stati con lui nelle tentazioni, e, in segno di riconoscenza, an­nunciò loro l’onore di cui li avrebbe favoriti, mettendoli su dodici troni per giudicare le dodici tribù d’Israele. Trovò conforto nella lo­ro compagnia quando si avvicinò il suo supremo sacrificio; li riunì intorno a sé nell’ultima cena e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» (Le 22,15). Esisteva tra essi uno scambio di amore e di simpatia. La sua adorabile volontà era di essere tutto solo, e quindi anche gli apostoli dovevano abbandonarlo. Uno lo tradì, un altro lo rinnegò, gli altri fuggirono, abbandonandolo nelle mani dei suoi nemici. Risorto, nessuno voleva prestare fede al miracolo.

16. Gesù, onnipotente e beato, la tua anima, inondata dalla glo­riosa visione della natura divina, fu sottomessa a tutte le infermità che le sono inerenti; tu le permettesti di godere della simpatia di al­cuni mortali, dei quali pianse la perdita, e quando a te piacque, la privasti anche della luce e dell’assistenza di Dio. Questa fu l’ultima e suprema prova a cui Gesù sottopose la sua anima. Durante l’a­dempimento del suo ministero, egli aveva cercato in Dio un rifugio contro la malizia degli uomini; l’aveva chiamato in suo aiuto, aveva trovato conforto parlando col Padre suo dell’ingratitudine degli uo­mini che era venuto a salvare. Pregava tutta la notte. Egli diceva: «Il Padre ama il Figlio e gli dice tutto quello che fa». Lo ringraziava perché teneva nascosti i suoi misteri ai grandi della terra e li rivelava invece agli umili. Ma rinunciò a questa consolazione per la quale vi­veva, e vi rinunciò interamente. Cominciata la sua passione, disse: «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mt 26,38); sulla croce gridò: «Mio Dio perché mi hai abbandonato?» (Me 15,34).

Mio Dio e mio Salvatore, la cui anima visse nella solitudine e lontana dall’oggetto dei suoi sospiri e del suo amore, non privarmi della luce del tuo volto, se non vuoi che io mi estingua nelle mie de­bolezze. Chi potrebbe sopravvivere alla perdita del sole dell’anima? Chi potrebbe camminare nell’oscurità più profonda, senza neppure un filo d’aria pura? Ahimè! io cercherei il conforto nelle creature se tu non volessi darti a me. Io non soffrirei, non avrei né fame né sete di giustizia, mi nutrirei dei resti del rifiuto e mi sfamerei con cenere e paglia che, se non sono veleno, non sono però nutrimento. O mio Dio! non abbandonarmi nella mia miseria! dammi la consolazione di godere della tua grazia. Come posso avere tenerezza per te se non ti vedo? come perseverare nella preghiera se tu non m’incoraggi e non la rendi dolce?

Testo:
John Henry Newman, Meditazioni e Preghiere, a cura di VELOCCI G. Jaca Book Milano 2002, 41s.